E’ il febbraio del 1934 quando Anne raggiunge ad Amsterdam la sorella Margot e i genitori, Edith e Otto. Finora ha vissuto a Francoforte, dove è nata il 12 giugno del 1929 e dove ha sempre avuto la possibilità di frequentare bambini di ogni fede religiosa, ebrei come lei, ma anche protestanti e cattolici. Quando però, nel ’33, sono cominciate le prime violente manifestazioni antisemite, i suoi genitori hanno preferito trasferirsi ad Amsterdam, dove il padre, oltre a dirigere una filiale dell’ Opekta (che vende addensanti per marmellate), apre una piccola ditta di spezie per insaccati insieme a Hermann van Pels, anche lui in fuga dalla Germania. Otto cerca di non farsi spaventare troppo dall’escalation nazista: perfino di fronte alla terribile “notte dei cristalli” (1938) si limita ad osservare che si tratta semplicemente di un “attacco febbrile“, convincendosi o cercando di convincersi che la situazione sarebbe presto tornata alla normalità.
Non sarà così. Il proditorio attacco di Hitler alla Polonia (settembre 1939), lo scoppio della seconda guerra mondiale e la successiva occupazione dei Paesi Bassi aprono scenari terribili. Una raffica di leggi antisemite priva gli ebrei di tutti i loro diritti, tanto che Otto si vede costretto a rinunciare, almeno formalmente, alla direzione della fabbrica cedendola ai suoi più stretti collaboratori. Nella primavera del 1942, Otto e Hermann van Pels decidono di approntare un nascondiglio per le rispettive famiglie servendosi di una sezione inutilizzata della fabbrica che si trova proprio alle spalle di quest’ultima: Anne la definirà l”‘achterhuis“, il “retrocasa“. In tutto, quattro camere e un bagno distribuiti su due piani, con una scala di legno che conduce alla soffitta. La porta che permette l’accesso al “rifugio segreto“, in Prinsengracht 263, viene nascosta con una libreria girevole.
Una ricostruzione dell’edificio in cui si trovavano la fabbrica e il “retrocasa“
La porta girevole camuffata dalla libreria
Nei giorni successivi, Otto Frank trasporta nella casa mobili, suppellettili e provviste, aiutato da amici e collaboratori che coraggiosamente sfidano le pesanti pene previste per chiunque nasconda ebrei. Anne, però non sa ancora nulla del “rifugio segreto“. Soltanto il 5 luglio del 1942 suo padre comincia a parlarle per la prima volta della necessità di nascondersi: Anne, confusa e angosciata, annota la loro conversazione sul diario che ha ricevuto in dono il 12 giugno del 1942, in occasione del suo tredicesimo compleanno.
“In questi ultimi tempi papà sta molto in casa perché non può più occuparsi di affari. Deve essere ben triste sentirsi così inutile. Koophuis ha rilevato la ditta Travies, e Kraler la Kolen E C. Qualche giorno fa, mentre passeggiavamo sulla piazzetta, papà cominciò a parlare dell’opportunità di nasconderci. Pensava che per noi sarebbe stato molto meglio andare a vivere del tutto separati dal mondo. Gli domandai perché parlasse così: «Anna» mi disse «tu sai che da oltre un anno stiamo portando vestiario, viveri e mobili in casa di altra gente. Non vogliamo che i nostri averi cadano nelle mani dei tedeschi, ma nemmeno vogliamo essere impacchettati noi. Perciò bisogna che ce ne andiamo, senza aspettare che ci prendano».
«E quando, papà?» Mi angosciava la serietà con cui il babbo aveva parlato.
«Non angustiarti per questo, provvederemo noi a tutto; goditi la tua vita senza preoccupazioni, finché puoi.» E
nient’altro. Ah! come spero che queste fosche parole tardino a tradursi in realtà!
La tua Anna.”
Tre giorni dopo la situazione precipita drammaticamente.
“Mercoledì, 8 luglio 1942
Cara Kitty,
da domenica mattina a oggi sembra che siano passati degli anni. Sono avvenute tante cose da far credere che il mondo si sia capovolto. Ma, Kitty, vedi bene che vivo ancora, e questo è ciò che conta, dice papà.
Sì, effettivamente io vivo ancora, ma non mi domandare dove e come. Penso che oggi non capirai più nulla di me,
perciò comincerò a raccontarti quanto è avvenuto nel pomeriggio di domenica.
Alle tre (Harry se n’era appena andato, per tornare più tardi), qualcuno suonò alla porta. Io non udii, perché stavo in veranda e leggevo prendendomi il sole distesa su di una sedia a sdraio. Poco dopo comparve Margot, eccitatissima, alla porta della cucina. «C’è una chiamata delle S.S. per papà» mormorò «mamma è già andata dal signor Van Daan.» (Van Daan è un buon amico, collaboratore di papà nella ditta.) Mi spaventai immensamente; una chiamata, si sa che cosa significhi. Nella mia mente già vedevo campi di concentramento e celle di segregazione. E doverci lasciar andare il babbo! «Naturalmente non si presenterà» mi spiegò Margot, mentre in camera aspettavamo il ritorno della mamma.
«Mamma è andata da Van Daan per consigliarsi se convenga trasferirci nel nostro rifugio segreto. Siccome i Van Daan verranno con noi, saremo sette in tutto.» Silenzio. Non potevamo più parlare. Il pensiero di papà che, senza sospettare nulla di male, era andato a visitare dei vecchi all’Ospizio ebraico, l’attesa di mamma, il caldo, la tensione, tutto ci faceva tacere. Suonarono di nuovo. «E’ Harry» dissi io. «Non aprire» fece Margot, trattenendomi. Ma era inutile: udimmo mamma e il signor Van Daan che parlavano di sotto con Harry, poi entrarono e chiusero la porta dietro di sé. Ora a ogni scampanellata io o Margot avremmo dovuto scendere piano piano per vedere se era papà, e non aprire a nessun altro.
Margot e io fummo mandate fuori della stanza. Van Daan voleva parlare da solo con mamma. Quando ci trovammo nella nostra camera da letto, Margot mi raccontò che la chiamata non riguardava papà, ma lei. Ne fui più che mai spaventata e cominciai a piangere. Margot ha sedici anni: dunque vogliono proprio portare via da sole delle ragazze così giovani? Ma per fortuna non ci andrà, anche mamma lo ha detto; a questo si riferiva il babbo quando parlava con me di nasconderci.
Nasconderci! dove dovremmo nasconderci, in città, in campagna, in una casa, in una capanna, quando, come, dove…? Erano problemi ch’io non volevo pormi, e che tuttavia continuamente riaffioravano. Margot e io cominciammo a stipare l’indispensabile in una borsa da scuola. La prima cosa che ci ficcai dentro fu questo diario, poi arriccia-capelli, fazzoletti, libri scolastici, un pettine, vecchie lettere; pensavo che bisognava nascondersi e cacciavo invece nella borsa le cose più assurde. Ma non me ne rammarico, ci tengo di più ai ricordi che ai vestiti.
Alle cinque finalmente arrivò papà; telefonammo al signor Koophuis e gli domandammo se sarebbe potuto venire
ancora la sera stessa. Van Daan andò a prendere Miep. Miep lavora con papà dal 1933 ed è divenuta una nostra intima amica, così come il suo novello sposo Henk. Miep arrivò, mise in una borsa scarpe, vestiti, biancheria, calze, e li portò via promettendo di tornare la sera. Poi vi fu silenzio nella nostra casa; nessuno di noi quattro volle mangiare, faceva ancor caldo e tutto appariva tanto strano. Avevamo affittato la grande camera del piano di sopra a un certo signor Goudsmit, un uomo divorziato, sulla trentina, che quella sera sembra non avesse nulla da fare, perciò rimase a ciondolarci attorno fino alle dieci, e con buone parole non c’era verso di liberarcene. Alle undici giunsero Miep e Henk van Santen. Scarpe, calze, libri e biancheria scomparvero ancora una volta nella borsa di Miep e nelle profonde tasche di Henk; alle undici e mezza se n’erano andati anche loro. Io ero stanca morta, e sebbene sapessi che quella era l’ultima notte che avrei passato nel mio letto, dormii sodo e fui svegliata alle cinque e mezza dalla mamma. Per fortuna faceva meno caldo che domenica, e piovve poi tutto il giorno. Ci infagottammo tutti e quattro come se dovessimo passare la notte in una ghiacciaia, e ciò allo scopo di portar via quanto più vestiario potevamo. Nessun ebreo, nelle nostre condizioni, avrebbe osato uscir di casa con una valigia piena di abiti. Io avevo addosso due camicie, tre calzoncini, una sottoveste, una sottana, una giacchetta, una giacca da estate, due paia di calze, scarpe pesanti, un berretto, uno scialle e altro ancora; soffocavo già prima d’uscire di casa, ma nessuno se ne preoccupava.
Margot riempì la sua cartella di libri scolastici, tolse la bicicletta dalla rimessa e filò dietro a Miep per destinazione a me sconosciuta. Io infatti continuavo a ignorare dove fosse il luogo misterioso che ci attendeva. Alle sette e mezza anche noi ci chiudemmo la porta dietro; l’unico essere da cui presi congedo fu Moortje, il mio gattino, che avrebbe trovato buon alloggio presso i vicini, come era detto in una lettera indirizzata al signor Goudsmit. In cucina un bel pezzo di carne per il gatto e le tazze della colazione sul tavolo, i letti disfatti, tutto lasciava l’impressione che noi fossimo scappati a rotta di collo. Ma le impressioni degli altri non ci importavano, noi volevamo andar via, via, e arrivare al sicuro, nient’altro.
Continuerò domani. La tua Anna.
Il “retrocasa”
Il 6 luglio i Frank raggiungono il loro rifugio segreto, di cui Anne apprende l’esistenza soltanto durante il percorso. Una settimana dopo verranno raggiunti dai van Pels e, a novembre, dal dentista Fritz Pfeffer, amico comune delle due famiglie. Per depistare le SS, i Frank hanno lasciato il loro appartamento sottosopra, in modo da simulare una partenza precipitosa: un biglietto avverte che la famiglia è fuggita in Svizzera.
Giovedì, 9 luglio 1942
Cara Kitty,
così ce n’andammo sotto una pioggia scrosciante, il babbo, la mamma e io, ciascuno con una borsa da scuola o da spesa, piene zeppe di oggetti ficcati dentro alla rinfusa.
Gli operai che di buon mattino si recavano al lavoro ci guardavano con compassione; si leggeva loro in viso il
rammarico di non poterci offrire un mezzo di trasporto; la vistosa stella gialla parlava da sé.
Strada facendo papà e mamma mi svelarono con un racconto spezzettato la storia del nascondiglio. Già da parecchi mesi avevano mandato via di casa quanto più avevano potuto di mobili e di biancheria; ed eravamo ormai pronti a trasferirci volontariamente il 16 luglio. La chiamata delle SS aveva fatto anticipare il piano di fuga di dieci giorni, cosicché avremmo dovuto accontentarci di un appartamento meno in ordine.
La camera di Anna
Per otto persone relegate in una superficie di 50 mq, la convivenza è molto difficile: l’impossibilità di uscire o anche solo di affacciarsi alle finestre, l’attenzione a non produrre il benché minimo rumore, l’incertezza, la paura costante creano un clima sempre più teso. Per Anne, che è una ragazzina molto vivace, la situazione è particolarmente pesante: il controllo continuo dei genitori, le dure regole che le vengono imposte, la necessità di condividere la camera con Fritz Pfeffer (al quale Anne nel diario affibbia il nomignolo “Dussel”, “sciocco”), si aggiungono al fastidio di essere continuamente paragonata alla sorella maggiore, Margot, più posata e tranquilla di lei. Nonostante tutto, però, Anne non perde mai la fiducia nel futuro.
Giovedì, 16 settembre 1943
Cara Kitty,
qui i nostri rapporti diventano sempre più difficili. A tavola nessuno osa aprir bocca (se non è per farci scivolare
dentro un boccone) perché quello che dici è preso in mala parte o falsamente interpretato. Tutti i giorni ingoio
valeriana per combattere l’ansia e la depressione, ma nonostante ciò il mio umore diventa sempre più triste. Una buona risata servirebbe di più che dieci pillole di valeriana, ma abbiamo quasi disimparato a ridere. A volte ho paura che a star così seria mi venga una faccia lunga e la bocca cascante. Gli altri non stanno meglio, e sono tutti oppressi dall’incubo del prossimo inverno.
Martedì, 11 aprile 1944
[…] Dobbiamo ricordarci che siamo dei clandestini, che siamo ebrei incatenati, incatenati in un determinato posto, senza diritti ma con mille doveri. Noi ebrei non possiamo far valere i nostri sentimenti, dobbiamo esser forti e coraggiosi, dobbiamo addossarci tutte le scomodità e non mormorare, dobbiamo fare ciò che possiamo e fidare in Dio. Questa maledetta guerra dovrà pur finire, e allora saremo di nuovo uomini, e non soltanto ebrei.
Chi ci ha imposto questo? Chi ha fatto di noi ebrei un popolo distinto da tutti gli altri? Chi ci ha fatto tanto soffrire finora? E’ stato Iddio che ci ha fatti così, ma sarà anche Iddio che ci eleverà. Se, nonostante tutte queste nostre sofferenze, alla fine restano ancor sempre degli ebrei, vuol dire che un giorno gli ebrei, anziché essere proscritti, serviranno di esempio. Chissà che non debba ancora essere la nostra fede, quella che insegnerà il bene al mondo e ai popoli, e che per questo, per questo soltanto occorra che noi soffriamo. Non potremo mai diventare soltanto olandesi, soltanto inglesi, o cittadini di qualunque altro paese, ma rimarremo sempre anche ebrei e vogliamo rimanere ebrei. Coraggio! Rimaniamo consci del nostro compito e non mormoriamo; la salvezza verrà, Dio non ha mai abbandonato il nostro popolo. Gli Ebrei sono sopravvissuti attraverso tutti i secoli, gli Ebrei hanno dovuto soffrire per tutti i secoli, ma ciò li ha anche resi più forti; i deboli cadono, ma i forti sopravviveranno e non periranno mai!
In quella notte sapevo di dover morire, aspettavo la polizia, ero pronta, pronta come i soldati sul campo di battaglia. Mi sarei volentieri sacrificata per la patria; ma ora che sono salva, il mio primo desiderio è di diventare olandese, dopo la guerra.
Amo gli olandesi, amo questo paese, amo questa lingua, e voglio lavorare qui. E anche se dovessi scrivere alla Regina, non desisterò prima di aver raggiunto il mio scopo.
Mi rendo sempre più indipendente dai miei genitori; giovane come sono, affronto la vita con maggior coraggio di
mamma, e ho più di lei radicato il senso della giustizia. So quello che voglio, ho uno scopo, un’opinione, una fede e un amore. Lasciatemi esser me stessa e sarò contenta. So di essere una donna, una donna con forza interiore e molto coraggio.
Se Dio mi concederà di vivere, arriverò dove mia madre non è mai arrivata, non resterò una donna insignificante e
lavorerò nel mondo e per gli uomini.
E ora so che per prima cosa occorrono coraggio e giocondità.
La tua Anna.
All’interno del rifugio, le giornate trascorrono in una continua alternanza di paure e di speranze.
Mercoledì, 10 marzo 1943
Cara Kitty,
ieri sera abbiamo avuto un corto circuito, mentre fuori sparavano ininterrottamente. Io non riesco a liberarmi dalla paura degli spari e degli aeroplani, e quasi ogni notte vado nel letto di papà a cercar conforto. Sarà molto infantile, ma dovresti aver provato! Non puoi più capire nemmeno le tue parole, tanto tuonano i cannoni! La signora, la fatalista, si mise quasi a piangere e diceva con una vocina angosciata: «oh, è così spiacevole, sparano tanto forte!» il che significa: “Ho tanta paura”.
Al lume di candela non è così terribile come al buio. Io tremavo come se avessi la febbre e supplicai papà di
riaccendere la candela. Fu inesorabile, la candela rimase spenta. Improvvisamente cominciarono le mitragliatrici, che sono dieci volte peggio dei cannoni. Mamma saltò dal letto e con gran dispetto di papà accese la candela. Ai brontolii del babbo rispose risolutamente: «Anna non è un vecchio soldato». E basta.
Martedì, 6 giugno
Carissima Kitty,
“This is D-day”, disse alle 2 la radio inglese, e giustamente: “this is the day”, l’invasione è cominciata. […] L’alloggio segreto è in subbuglio! Si avvicina dunque davvero la liberazione lungamente attesa, la liberazione di cui si
è tanto parlato, ma che è troppo bella, troppo leggendaria per diventar mai realtà? Quest’anno, il 1944, ci darà la
vittoria? Non lo sappiamo ancora, ma la speranza ci fa rivivere, ci ridona coraggio e forza. Ci vorrà coraggio infatti per resistere alle continue angosce, alle privazioni, alle sofferenze; ora ciò che più importa è rimanere calmi e tenaci. Ora più che mai occorre ficcare le unghie nella carne per non gridare. La Francia, la Russia, l’Italia e anche la Germania possono gridare per la loro miseria; noi non ne abbiamo ancora il diritto.
O Kitty, la cosa più bella dell’invasione è che io ho la sensazione che stiano arrivando degli amici. Questi orrendi
tedeschi ci hanno così lungamente oppressi, tenendoci il coltello alla gola, che il pensiero degli amici e della salvezza ci riempie nuovamente l’animo di fiducia.
Non si tratta più soltanto degli ebrei, ma dell’Olanda e di tutta l’Europa occupata. Forse, dice Margot, a settembre o a ottobre potrò tornare a scuola.
La tua Anna.
PS. Ti terrò al corrente delle ultime notizie!
Nello spazio reso ancora più angusto dalle difficoltà della convivenza e dalla costante minaccia dei bombardamenti o di un’irruzione della Gestapo, il solaio diventa una sorta di oasi in cui rifugiarsi. Qui c’è l’unica finestra che non sia ancora stata oscurata, l’unico sole che si può ancora vedere senza pericolo, l’unico sprazzo di vita da respirare, l’ultima certezza di un mondo esterno in cui non esiste soltanto il male: “Fuori fa bel tempo, e nonostante tutto, quando possiamo, ne approfittiamo anche noi andando a sdraiarci sulla branda in solaio, dove il sole entra da una finestra spalancata.” Anche se quassù abita “un esercito di grossi ratti” ai quali Mouschi (il gatto di Peter) viene incaricato di fare la guardia, il solaio resta, soprattutto per Anne e per Peter, un “posto di osservazione“, o un luogo in cui rifugiarsi per leggere, per parlare, per gustare un po’ di pace e uno squarcio azzurro di cielo.
Mercoledì, 23 febbraio 1944
Cara Kitty,
da ieri il tempo è splendido fuori, e io sono molto animata. Vado quasi ogni mattina nel solaio, dove lavora Peter, per liberarmi i polmoni dall’aria viziata della stanza. Mi siedo per terra nel mio posticino preferito e guardo il cielo azzurro, il castagno brullo sui cui rami scintillano piccole goccioline, i gabbiani e gli altri uccelli che fendono l’aria e sembrano argentati.
Egli stava in piedi col capo appoggiato alla grossa trave, io seduta, respiravamo l’aria fresca, guardavamo fuori e
sentivamo che c’era qualcosa che non bisognava interrompere colle parole. Rimanemmo a lungo così, e quando egli dovette salire in soffitta a spaccar legna, sapevo che è proprio un bel ragazzo. Si arrampicò per la scaletta, io lo seguii e per tutto il quarto d’ora che spaccò legna non dicemmo parola. Dal mio posto di osservazione lo guardavo e capivo
che cercava di far del suo meglio per mostrarmi quanto era forte. Ma guardavo anche dalla finestra aperta, sopra un grande settore di Amsterdam, sopra tutti i tetti fino all’orizzonte, tanto luminoso e azzurro che la linea di separazione non era chiaramente visibile. “Finché questo c’è ancora” pensai “e io posso godere questo sole, questo cielo senza nuvole, non ho il diritto di essere triste.”
Per chi ha paura, o si sente incompreso e infelice, il miglior rimedio è andar fuori all’aperto, in un luogo dove egli sia completamente solo, solo col cielo, la natura e Dio. Soltanto allora, infatti, soltanto allora si sente che tutto è come deve essere, e che Dio vuol vedere gli uomini felici nella semplice bellezza della natura. Finché ciò esiste, ed esisterà sempre, io so che in qualunque circostanza c’è un conforto per ogni dolore. E credo fermamente che ogni afflizione può essere molto lenita dalla natura.
Oh, chi sa che fra non molto io possa dividere questa gioia esuberante con qualcuno che la senta come la sento io!
La tua Anna
L’amore tra due adolescenti
Nel rifugio segreto, Anne vive il suo primo amore, quello con Peter van Pels. Sulle prime lo descrive come “uno scioccone che non ha ancora sedici anni, alquanto noioso e timido, dalla cui compagnia c’è poco da aspettarsi“. Peter – annota Anne – “poltrisce tutto il giorno sul letto, ogni tanto si alza per fare qualche lavoretto da falegname, e poi torna a sonnecchiare. Che stupido!“. Poi, però comincia a parlarne sempre più spesso e un giorno, mentre è “in visita” dai van Daan (così Anne chiama i van Pels nel suo diario), racconta che il ragazzo le “accarezza il viso“, il che la infastidisce: “non mi piacciono i ragazzi che mettono le mani addosso“.
Poi, però…
Domenica, 13 febbraio 1944
Cara Kitty,
da sabato c’è molto di cambiato per me. E’ andata così. Avevo una folla di desideri e li ho ancora – ma in parte, in
piccolissima parte, i miei desideri sono soddisfatti.
Stamane mi sono accorta, e con grande gioia – per essere sincera- che Peter mi guardava continuamente. In modo del tutto inconsueto, non so come, non so spiegarlo.
Prima avevo pensato che Peter fosse innamorato di Margot, ora ebbi d’un tratto la sensazione che non è così. Per tutto il giorno ho cercato di non guardarlo troppo, perché, se lo facevo, anche lui mi guardava – e allora… allora provavo una sensazione gradevole, dentro di me, che non debbo provare troppo spesso.
Domenica, 27 febbraio 1944
Carissima Kitty,
non faccio altro che pensare a Peter dalla mattina presto fino alla sera tardi. Mi addormento colla sua immagine davanti agli occhi, lo sogno, ed egli ancora mi guarda quando mi sveglio.
Ho la netta impressione che Peter e io non siamo poi tanto diversi come parrebbe e te ne spiegherò il perché. Tanto a lui quanto a me manca una madre. La sua è troppo superficiale, ama civettare e non si cura di quello che pensa suo figlio. La mia si occupa di me, ma difetta di sensibilità, di comprensione materna.
Peter e io soffriamo entrambi di conflitti interiori, siamo ancora malcerti e troppo delicati e sensibili per essere trattati rudemente. Se questo avviene, la mia reazione sarebbe di andar via di casa. Ma siccome non lo posso fare, nascondo quello che realmente sento, mi sfogo a versare padelle d’acqua e faccio un tal baccano che tutti vorrebbero non avermi d’attorno.
Lui invece si chiude in se stesso, non parla quasi più, resta come trasognato e così facendo si nasconde accortamente.
Ma come e quando potremo finalmente riunirci?
Non so per quanto tempo ancora il mio buon senso riuscirà a dominare questo desiderio.
La tua Anna.
Venerdì, 3 marzo 1944,
[…] Kitty, sono proprio come un’innamorata, che non sa parlar d’altro che del suo tesoro. Peter infatti è veramente un tesoro. Quando glielo potrò dire? Naturalmente soltanto quando lui troverà che sono anch’io un tesoro. Ma non sono un gattino da prendere senza guanti, lo so bene. E lui vuole stare tranquillo, così non so fino a che punto gli piaccio, non ne ho la minima idea. Comunque, impariamo a conoscerci un poco; vorrei davvero che osassimo dirci molto di più. Chi sa che quel momento non arrivi prima di quanto io pensi! Un paio di volte al giorno mi lancia un’occhiata d’intesa, io di rimando gli strizzo l’occhio e siamo entrambi felici.
Sembra strano che io parli della sua felicità, ma ho il sentimento irresistibile che egli pensi esattamente quello che
penso io.
La tua Anna.
Martedì, 28 marzo 1944
[…] Mamma è convinta che Peter sia innamorato di me; francamente, vorrei che lo fosse, allora saremmo pari e potremmo conoscerci intimamente con maggior facilità. Dice anche che Peter mi guarda troppo. Ebbene, è verissimo che più di una volta ci lanciamo delle occhiatine e ch’egli rimira le fossette delle mie guance, ma non ci posso far niente, ti pare?
Mi trovo in una situazione molto difficile. Mamma è contro di me e io contro di lei, papà finge di non vedere la lotta silenziosa che si svolge fra di noi. Mamma è triste, perché mi vuole realmente bene, io non lo sono affatto, perché sono convinta che non mi capisce. E Peter… non voglio rinunciare a Peter, è così caro, lo ammiro tanto. Come potrà diventar bella la nostra amicizia! Perché questi vecchioni si ostinano a metterci il naso? Per fortuna sono abituata a nascondere l’animo mio e riesco assai bene a non lasciar scorgere quanto io sia pazza di lui. E lui, dirà qualche cosa? Sentirò mai la sua guancia contro la mia, come ho sentito quella di Petel in sogno? O Peter o Petel, siete un’unica cosa! Costoro non ci capiscono, non afferrerebbero mai che noi siamo già contenti quando sediamo l’uno accanto all’altro senza parlare.
Non capiscono che cosa ci spinge l’uno verso l’altro. Oh, quando saranno superate tutte queste difficoltà? Eppure è bene dover lottare, perché la vittoria sarà tanto più bella. Quando reclina il capo sulle braccia e chiude gli occhi, è ancora un bambino; quando gioca con Mouschi è affettuoso, quando trasporta patate o altri pesi, è forte; quando assiste ai bombardamenti o al buio cerca i ladri, è coraggioso, e quando è così impacciato e maldestro, allora è tanto caro.
Mi piace molto di più quando spiega qualche cosa a me che quando ho da insegnare qualche cosa a lui: vorrei
veramente che mi fosse superiore in tutto.
Che m’importa di tutte queste madri? Oh, se si decidesse a parlare.
La tua Anna.
Domenica mattina, poco prima delle 11, 16 aprile 1944.
Carissima Kitty,
ricordati la data di ieri, perché è molto importante nella mia vita. Non è importante per ogni ragazza aver ricevuto il primo bacio? Ebbene, lo è anche per me. Il bacio di Bram sulla mia guancia destra non conta, e neppure quello di Walker sulla mia mano destra.
Ora ti racconterò come sono giunta a quel bacio.
Ieri sera alle otto sedevo con Peter sul suo divano quando d’improvviso egli mi passò un braccio attorno.
«Spostiamoci un poco: dissi io «se no picchio la testa contro l’armadio.» Si spostò, fin quasi nell’angolo, io passai il mio braccio sotto il suo appoggiandoglielo sul dorso ed egli quasi mi sepolse appendendo il suo braccio sulla mia spalla.
Ci eravamo già seduti in questa modo altre volte, ma mai così vicini come ieri sera. Mi serrò forte a sé, il mio seno
sinistro contro il suo petto; il mio cuore batteva sempre più in fretta ma non era ancora finita. Non rimase tranquillo finché il mio capo non fu appoggiato sulla sua spalla e il suo capo sul mio. Dopo circa cinque minuti mi drizzai un poco, ma egli mi riprese subito il capo fra le mani e lo strinse a sé. Oh, era così bello, non potevo neppure parlare, tanto grande era la mia gioia. Mi accarezzò un po’ da maldestro, la guancia e il braccio, giocherellò coi mie riccioli, e i nostri capi rimasero l’un contro l’altro per quasi tutto quel tempo. Non ti posso esprimere la sensazione che mi pervase Kitty, ero tanto felice ed egli pure, credo.
Alle otto e mezza ci alzammo. Peter si mise le scarpe da ginnastica per non far rumore nel suo giro per la casa, e io lo stetti a guardare. Come avvenne non lo so, ma prima che scendessimo egli mi diede un bacio sui capelli, fra la guanciae l’orecchio. Corsi sotto senza voltarmi. Sono piena di speranza per oggi.
La tua Anna.
L’ultima confessione a “Kitty” e l’arresto
1 agosto 1944
Cara Kitty,
“un fastello di contraddizioni” è l’ultima frase della mia lettera precedente e la prima di quella di oggi. “Un fastello di contraddizioni”, mi puoi spiegare con precisione che cos’è? Che cosa significa contraddizione? Come tante altre parole ha due significati, contraddizione esteriore e contraddizione interiore.
Il primo significato corrisponde al solito “non adattarsi all’opinione altrui, saperla più lunga degli altri, aver sempre l’ultima parola”, insomma, a tutte quelle sgradevoli qualità per le quali io sono ben nota. Il secondo… per questo, no, non sono nota, è il mio segreto.
Ti ho già più volte spiegato che la mia anima è, per così dire, divisa in due. Una delle due metà accoglie la mia
esuberante allegria, la mia gioia di vivere, la mia tendenza a scherzare su tutto e a prendere tutto alla leggera. Con ciò intendo pure il non scandalizzarsi per un flirt, un bacio, un abbraccio, uno scherzo poco pulito. Questa metà è quasi sempre in agguato e scaccia l’altra, che è più bella, più pura e più profonda. La parte migliore di Anna non è conosciuta da nessuno, – vero? – e perciò sono così pochi quelli che mi possono sopportare.
Certo, sono un pagliaccio abbastanza divertente per un pomeriggio, poi ognuno ne ha abbastanza di me per un mese. Esattamente la stessa cosa che un film d’amore per le persone serie: una semplice distrazione, uno svago per una volta, da dimenticare presto, niente di cattivo ma neppur niente di buono. E’ brutto per me doverti dir questo, ma perché non dovrei dirlo, quando so che è la verità? La mia parte leggera e superficiale si libererà sempre troppo presto della parte più profonda, e quindi prevarrà sempre. Non ti puoi immaginare quanto spesso ho cercato di spingere via quest’Anna, che è soltanto la metà dell’Anna completa, di prenderla a pugni, di nasconderla; non ci riesco, e so anche perché non ci riesco. Ho molta paura che tutti coloro che mi conoscono come sono sempre, debbano scoprire che ho anche un altro lato, un lato più bello e migliore. Ho paura che mi beffino, che mi trovino ridicola e sentimentale, che non mi prendano sul serio. Sono abituata a non essere presa sul serio, ma soltanto l’Anna “leggera” v’è abituata e lo può sopportare, l’Anna “più grave” è troppo debole e non ci resisterebbe. Quando riesco a mettere alla ribalta per un quarto d’ora Anna la buona, essa, non appena ha da parlare, si ritrae come una mimosa, lascia la parola all’Anna n. 1 e, prima che io me ne accorga, sparisce.
La cara Anna non è dunque ancor mai comparsa in società, nemmeno una volta, ma in solitudine ha quasi sempre il primato. Io so precisamente come vorrei essere, come sono di dentro, ma ahimè, lo sono soltanto per me. E questa è forse, anzi, sicuramente la ragione per cui io chiamo me stessa un felice temperamento interiore e gli altri mi giudicano un felice temperamento esteriore. Di dentro la pura Anna mi indica la via, di fuori non sono che una capretta staccatasi dal gregge per troppa esuberanza.
Come ho già detto, sento ogni cosa diversamente da come la esprimo, e perciò mi qualificano civetta, saccente, lettrice di romanzetti, smaniosa di correr dietro ai ragazzi. L’Anna allegra ne ride, dà risposte insolenti, si stringe indifferente nelle spalle, fa come se non le importasse di nulla, ma ahimè, l’Anna quieta reagisce in maniera esattamente contraria.
Se ho da essere sincera, debbo confessarti che ciò mi spiace molto, che faccio enormi sforzi per diventare diversa, ma che ogni volta mi trovo a combattere contro un nemico più forte di me.
Una voce singhiozza entro di me: “Vedi a che ti sei ridotta: cattive opinioni, visi beffardi e costernati, gente che ti trova antipatica, e tutto perché non hai dato ascolto ai buoni consigli della tua buona metà”. Ahimè, vorrei ben ascoltarla, ma non va; se sto tranquilla e seria, tutti pensano che è una nuova commedia, e allora bisogna pur che mi salvi con uno scherzetto; per tacere della mia famiglia che subito pensa che io sia ammalata, mi fa ingoiare pillole per il mal di testa e tavolette per i nervi, mi tasta il collo e la fronte per sentire se ho febbre, si informa delle mie evacuazioni e critica il mio cattivo umore. Non lo sopporto; quando si occupano di me in questo modo, divento prima impertinente, poi triste e infine rovescio un’altra volta il mio cuore, volgendo in fuori il lato cattivo, in dentro il lato buono, e cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… se non ci fossero altri uomini al mondo.
La tua Anna.
Questa è l’ultima pagina che Anne scrive nel suo diario. La mattina del 4 agosto 1944 la Gestapo irrompe nel nascondiglio. Gli otto clandestini vengono arrestati e, con loro, due delle persone che finora li hanno aiutati portando viveri e notizie: Kugler e Kleiman. Gli altri due, Miep Gies e Bep Voskuilj, riescono a sottrarsi all’arresto: sarà proprio Miep a raccogliere i fogli sparsi del diario di Anne per poi consegnarli a suo padre, Otto, che sarà l’unico a tornare dal lager. Trasferiti dapprima nel campo di concentramento di Westerbork, verranno mandati ad Auschwitz il 3 settembre del 1944: Edith, che non è mai riuscita ad accettare la separazione dalle figlie, muore di inedia il 6 gennaio 1945. Un mese dopo, Margot e Anne vengono spedite a Bergen-Belsen, dove muoiono entrambe di tifo esantematico, nel febbraio o nel marzo del 1945 (la data resta tuttora incerta).
Chi ha ha tradito Anne Frank?
Questo interrogativo non ha mai trovato una risposta certa. Il primo ad essere sospettato fu uno dei magazzinieri, Willem van Maaren, di cui già Anne nel diario aveva indicato lo strano comportamento.
Giovedì, 16 settembre 1943
Un altro fatto che non ci rallegra è che uno degli uomini del magazzino, v. M., comincia a nutrir qualche sospetto circa l’alloggio segreto. Non ci dovrebbe importar nulla di quel che v. M. pensa della situazione se costui non fosse un tipo malfido, curiosissimo e poco facile da menar per il naso.
Un giorno Kraler volle essere particolarmente prudente, all’una meno dieci infilò la giacca e andò nella vicina farmacia. In meno di cinque minuti era di ritorno, si insinuò furtivamente su per la ripida scala che conduce direttamente sopra e venne da noi. All’una e un quarto voleva di nuovo andar via, ma Elli venne ad avvisarlo che v.M. si trovava in ufficio. Fece dietro-front e rimase con noi fino all’una e mezza. Poi si prese le scarpe in mano, andò scalzo fino alla porta del solaio, prese a discendere la scala a passettini, mettendoci un buon quarto d’ora e facendo sforzi d’equilibrio sui gradini perché non scricchiolassero, e finalmente raggiunse l’ufficio dopo essere uscito per strada.
Elli intanto liberatasi da v. M. venne da noi a prendere Kraler, ma questi era già via da un pezzo e stava ancor
discendendo scalzo la scala. Cosa avranno detto i passanti, vedendo il direttore mettersi le scarpe per strada? Oihbò!
Un direttore in calzette!
Tua Anna
Ad aumentare i sospetti su di lui fu il fatto che Van Maaren fu più volte sorpreso a spargere farina sul pavimento della fabbrica, con il pretesto di intercettare il passaggio dei ladri che più volte avevano trafugato merce dai magazzini. Inoltre, Miep Gies scoprì che proprio a lui la Gestapo aveva affidato il compito di sorvegliare la ditta. Van Maaren, infatti, verrà indagato per ben due volte (nel 1948 e nel ’63), ma anche a voler prescindere dalle sue ripetute proteste di innocenza, sul suo conto non sarebbe mai emersa alcuna prova concreta.
Ad essere sospettata fu poi la donna delle pulizie, Lena Hartog-van-Bladeren, che, a quanto pare, si sarebbe ripetutamente lamentata, con una famiglia per la quale lavorava, della presenza di alcuni ebrei nascosti all’interno della fabbrica. Lo stesso Otto Frank sospettò di lei quando scoprì che la telefonata che aveva allertato la Gestapo era stata fatta proprio da una donna.
Nel 2002,
libro The hidden life of Otto Frank, puntò il dito contro un cacciatore di taglie, un certo Anton Ahlers, che lavorava come informatore della Gestapo ad Amsterdam e che avrebbe ricattato Otto Frank; ma anche questa tesi era troppo controversa per risultare convincente.Nell’aprile del 2015, uscì il libro “Bep Voskuijl, Het Zwigen Voorbij” (“Bep Voskuijl, Basta silenzio”)”, di cui era coautore proprio il figlio di Bep (Elisabeth) Voskuijl, una delle persone che avevano aiutato e protetto gli otto clandestini. Il libro indicava come delatrice Hendrika Petronella Voskuijl (detta Nelly), la sorella minore di Bep, che per qualche tempo era stata impiegata all’Opekta. Nelly, che simpatizzava apertamente con il nazismo, avrebbe avuto non pochi scontri con la sorella, che accusava di tenere nascosti degli ebrei.
Nel 2022, Rosemary Sullivan pubblica un nuovo libro: Chi ha tradito Anne Frank. Indagine su un caso mai risolto. All’indagine, durata ben sei anni, ha lavorato un équipe composta da un giornalista, uno storico e un ex agente dell’FBI, supportati da archivisti, analisti forensi e tecnici informatici. Il punto di partenza è uno scritto anonimo che Otto Frank ha ricevuto al suo ritorno dal lager e che indicava, come responsabile del tradimento, un notaio, Arnold van den Bergh, membro del Consiglio ebraico olandese che era stato costituito dai nazisti con il compito di collaborare con loro nell’attuazione delle misure anti-ebraiche, cosa che il Consiglio, ob torto collo, aveva accettato nella speranza di evitare il peggio. Secondo quanto riferito dalla Sullivan, Arnold van den Bergh sarebbe stato in possesso di una lista con gli indirizzi dei luoghi in cui si nascondevano gli ebrei. Anche questo libro, però, ha suscitato un’ondata di polemiche.
“Sciocchezze calunniose. – Afferma seccamente il giornalista ebreo olandese Leon de Winter. – Il libro è fondato sul nulla. Le liste di cui parla il libro non sono mai esistite”. E aggiunge: “Nessuno si fidava del Consiglio ebraico. Quindi per quale motivo questo Consiglio avrebbe ricevuto le liste dove gli ebrei erano nascosti? E se è vero che i tedeschi avevano ricevuto la lista con gli indirizzi dove erano nascosti gli ebrei, allora intorno al 4 agosto 1944, quando hanno scoperto il nascondiglio della famiglie Frank, avrebbero dovuto fare centinaia di rastrellamenti. Ma questo non è avvenuto”.
Diversi storici dubitano, infatti dell’esistenza di questa lista e del fatto che potesse essere nelle mani del Consiglio ebraico, organo notoriamente inaffidabile.
Il giornalista ebreo Hans Knoop, uno degli artefici dell’arresto del criminale di guerra olandese Pieter Menten (1976), è ancora più perentorio: “Quello che ci viene raccontato ha degli elementi assurdi. Dal punto di vista cronologico non è neanche possibile. Il Consiglio ebraico è stato sciolto a settembre 1943, quando gli ultimi due funzionari sono stati mandati al campo di transito a Westerbork. Coloro che si erano nascosti nell’Achterhuis al Prinsengracht 263, tra cui la famiglia Frank, sono stati arrestati solo il 4 agosto 1944, quindi quasi un anno dopo. Pertanto il tradimento non può essere legato al Consiglio ebraico”.
La casa di Anne Frank
Otto Frank, al suo ritorno da Auschwitz, trova che il “rifugio segreto” è stato completamente svuotato dei mobili (com’è di prassi quando viene liberata un’abitazione di ebrei) e che l’intero edificio in Prinsengracht 263 è ormai fatiscente.
Otto Frank nel “rifugio segreto”, la suo ritorno dal lager
Lo stato di rovina in cui si trovavano gli ambienti del nascondiglio segreto
Nel 1950 un’impresa tessile olandese, la Berghaus, decide di costruire in zona degli edifici industriali acquistando e poi demolendo alcune di questi caseggiati, tra cui la sede dell’Opekta comprensiva di quello che era stato il “rifugio segreto“. Per salvare dalla demolizione la sua vecchia azienda, Otto Frank la prende in affitto dal commerciante di carta straccia che l’aveva acquistata nel 1943, garantendosi un diritto di prelazione nel caso in cui il proprietario avesse deciso di vendere l’edificio. Nel 1953, riesce addirittura a comprarlo, con l’intento di restaurarlo; ma appena un anno dopo si vede costretto a rivenderlo alla Berghaus perché le spese di ristrutturazione sono decisamente troppo elevate e Otto non è in grado di sostenerle. A salvare il nascondiglio segreto della famiglia Frank sono l’intervento di alcuni dei suoi collaboratori e la pressione dell’opinione pubblica: nel 1957, la Berghaus rinuncia alla proprietà per cederla alla “Fondazione Anne Frank”, un’istituzione nata per salvaguardare la memoria di Anne e per trasformare in un museo accessibile al pubblico la casa dove la ragazzina aveva trascorso gli ultimi due anni della sua vita. Un altro importante passo avanti viene fatto per recuperare anche gli edifici contigui: in questo caso, scendono in campo la fondazione e il sindaco di Amsterdam, Van Hall, che lanciano una sottoscrizione popolare per acquistarli. Nel 1958, un progetto del Comune e dell’Università di Amsterdam, finalizzato alla costruzione di un alloggio per studenti all’angolo tra Prinsengracht e Westermarkt, permette di raccogliere la somma necessaria all’acquisto dell’intero complesso.
Maddalena Vaiani