“E’ mezzanotte. Dobbiamo eleggere la regina” disse Caterino.
“Ines!” gridò Emilio.
“Ines, Ines!” furono d’accordo tutti i giovani.
Ines uscì dal gruppo dei danzatori e si fece avanti ridendo. Lo spicchio di luna che brillava sopra le montagne fu più che bastevole per far capire che non era mai stata così bella. Indossava un corpetto viola, un’ampia sottana a fiori, le calze bianche e le pianelle di velluto nero. Nei capelli crespi da abissina aveva un papavero. Le sue labbra si aprivano in un sorriso che la sua bocca non riusciva a trattenere.
“Sali sul carro” ordinò Caterino.
Ora si trattava di eleggere il re. Il pensiero di Emilio si tese con tutte le forze perché l’eletto fosse lui. Doveva essere lui, non era possibile che facessero un altro, sarebbe stato un furto più sfacciato di quello che il destino aveva già compiuto due volte ai danni di sua madre.
“Emilio!” disse Caterino.
Emilio respirò. Capiva che la sua ansia era stata sprecata perché v’era una fatalità diffusa che la cosa avvenisse. Ne trovava la conferma perfino nella stella filante veduta cadere poco prima dietro l’Ambruseit, e in cose avvenute avanti la sua nascita, nella cortina verde e oscillante che aveva provocato la meraviglia di Alain, o nell’alluvione che aveva tentato di ingoiarsi la sua cesta di vimini e da cui era stato salvato in extremis.
“Emilio, Emilio!” acclamarono i giovani, riuscendo a troncare sul nascere la pianta improvvisa dell’invidia. Emilio salì sul calesse, circondando con un braccio la vita di una Ines diversa dal solito, che aveva esaurito la riserva delle fughe, dei graffi e degli spintoni, e accettava il suo gesto come una docile fidanzata.
Sorridendo a tutti, piegando il busto in avanti, Emilio si sentì stranamente calato nella sua parte e alitava sulla faccia il vento del passato. Capiva che lui era l’ultimo di una serie di re che le comunità primitive eleggevano da millenni perché comandasse al grano di crescere e alla pioggia di cadere.
Schioccò la frusta e il cavallo si mise al trotto, inseguito da schiamazzi festosi.
“Dove andiamo?” chiese Ines.
“Lo so io.”
Lei si divertiva. Tutto le sembrava un gioco straordinario, di cui ormai desiderava vedere la fine. La consapevolezza che era la notte di San Giovanni provocava dentro di lei uno scioglimento e uno struggimento che erano la somma di quelli provati nella stessa notte da anni e anni.
A Emilio parve di essere entrato senza accorgersi nei confini di Bengodi. Il Paese da sempre sognato dai contadini non aveva né cippi né guardie di frontiera, e la sua prima caratteristica era la facilità. Ciò che nella vita di ogni giorno pareva impossibile, irraggiungibile, dentro il regno di cui aveva appena ricevuto l’investitura diventava docile e a portata di mano. Anche se in esso l’ignoto persisteva, le sue possibilità prendevano forma nella chiave che Caterino gli aveva dato al momento del congedo, e nell’indirizzo di Galvaro che gli aveva mormorato all’orecchio. Emilio restò senza fiato quando, arrivato alla via e al numero indicati da Caterino, si trovò di fronte a un vero palazzo. Il lume a petrolio del calesse servì loro a orientarsi nei corridoi e nelle sale dipinte, in cui non era ancora entrata la calura dell’estate.
“Che meraviglia! Di chi è?” chiese Ines.
“Che ce ne importa? E’ nostro, per il momento!”
Ines non chiedeva di meglio che non fare domande. Aveva il potere di accettare come naturale ogni cosa, per lei tutto si giustificava per il fatto che esisteva. Il palazzo pareva un luogo dove c’era tutto ciò che serviva alla vita, ma in cui nessuno vivesse da tempo. Emilio intuì subito che era quello del Cacciatore, e che in tal modo le loro strade di nuovo si incrociavano. Ma era un pensiero lieve come un moscerino e lontano come una stella, perché si sentiva travolto dalla bellezza impressionante di Ines che era lì, era sua, e avrebbe potuto coglierla in ogni momento.
Si sentì invaso dalla smania come se il suo tempo galoppasse frettoloso, si consumasse come un fuoco di fascine, e le sue dita cominciarono a sperimentare la propria febbrile incapacità litigando con i bottoni e i nastri delle vesti di Ines. Lei lo assecondò come poteva, finché le sue forme ambrate fiorirono sopra il bianco lenzuolo di un letto a baldacchino.
Cominciò un gioco d’amore che pareva senza fine. Talvolta era lui che la svegliava, altre volte era lei che lo stanava dal sonno e gli faceva rinascere il desiderio. Quanto poteva durare? Ines non se lo chiedeva. Ciò che sarebbe accaduto in futuro sembrava non riguardarla, o configurarsi come qualcosa di lontanissimo, che forse non sarebbe venuto mai. La sua vita si ridusse a tre momenti fondamentali, l’amore, la fame e il sonno, che si alternavano capricciosamente, come lottatori che rotolino sull’erba di un fossato. Non si curava nemmeno di spalancare le finestre per vedere i tetti di Galvaro, o almeno per accertarsi se fuori faceva giorno o notte. Non scorgeva neppure la necessità di accendere un fuoco sotto le pentole, dato che per sfamarsi bastava metter mano a ciò che acquistava nella bottega più vicina. Sul cibo come sull’amore si gettava con la medesima avidità, che tuttavia in lei acquistava la stessa grazia delle forme il cui ricordo era sufficiente a sgretolare i sonni dei giovinotti di Malvernis. Pareva non riuscisse mai a estinguere la propria fame, e quando si metteva a mangiare sembrava riassalita da quell’ingordigia senza limite che da bambina la spingeva a divorare tutto ciò che le capitava a tiro, per cui ogni due settimane era costretta da sua madre a ingoiare uno spicchio d’aglio dietro l’altro per cacciare i vermi.
L’abitare in quel palazzo aumentò in Emilio il suo sotterraneo sentimento di esilio. Gli pareva di muoversi dentro una scenografia minacciata da un’insidiosa fragilità. Il palazzo e tutto il resto andavano bene soltanto per la notte in cui era diventato un re fittizio, ma non potevano durare. Non era possibile approfittare a lungo di quella inconsapevole gentilezza del Cacciatore, che poteva tornare in qualunque momento da un punto qualsiasi dell’Europa. Ines invece non si dava pensiero di nulla.
“Dobbiamo cercare una casa” disse Emilio.
“Che fretta c’è? Non stiamo bene qui?”
“Ma il palazzo non è nostro.”
“E che ce ne importa?”
Inutile cercare di spiegarle. Era impenetrabile a quei discorsi come un vaso di vetro all’acqua che contiene. Doveva sposarla al più presto, non tanto perché temesse suo padre o i suoi terribili fratelli, che affrontavano un cinghiale armati di un coltello, quanto per tirarsi fuori al più presto dalla palude della precarietà da cui si sentiva assediato da ogni parte. Bisognava riprendere il lavoro, chiedere aiuto al vecchio carpentiere. Capiva che l’amore l’aveva messo in un mare di guai e di difficoltà. Ines invece di aiutarlo tirava le cose per le lunghe. I programmi di lui non riuscivano a far presa nella sua testa, come se una corrente misteriosa li spazzasse subito via. Voglie strane si ergevano dentro di lei all’improvviso. Le nacque il desiderio di imparare a leggere, e pretese che Emilio glielo insegnasse, mentre lui aveva tutt’altre cose per la testa, e i problemi da risolvere gli si sollevavano davanti come spettri famelici e ingigantivano a vista d’occhio. Lei a scuola non era mai andata. L’edificio era troppo lontano dal casale dei Boschin e nessuno poteva accompagnarvela. Ma dopo due giorni si stancò del sillabario, convinta che era più che sufficiente che uno dei due se la cavasse con i libri.
I rapporti con lei erano sempre caratterizzati da un’imprevedibilità astrusa e spesso umoristica. Emilio usciva di casa per cercare due stanzette a Galvaro, o per fare le carte del matrimonio, e quando tornava stanco e affamato lei non aveva ancora alzato un dito per preparare il pranzo.
“Come mai?” chiedeva lui.
“Ho scopato fino adesso. Ho pulito anche la polvere. Questa casa è talmente enorme,” inventava lei di colpo, senza neanche dargli il tempo di finire la frase. Ines mentiva spesso, con estrema disinvoltura, come se la menzogna fosse un momento naturale del vivere, simile al bere, al mangiare e al dormire. Non esitava un istante a inventare le più fantastiche bugie soprattutto per difendersi e nascondere le sue malefatte, e i continui vuoti e misteri che si affacciavano nella sua esistenza come grilli all’orlo della tana. Giurava il falso usando formule infantili e fantasiose. Emilio diede alla cosa l’interpretazione più favorevole. La menzogna era una necessità cui lei doveva ricorrere per salvarsi dal diluvio di sberle da cui era perennemente minacciata in casa sua. Era stata per lei nient’altro che un mezzo per cavarsela e quasi per sopravvivere.
Emilio ebbe l’impressione che lei sentisse un’infinità di gente continuamente in guerra contro di sé, e che stesse sempre in una guardia armata, pronta ad attaccare per difesa. Per salvarsi era capace di qualunque cosa, di scaricare le colpe sugli altri, di urlare come un’aquila, di buttare tutto per aria. Quando Emilio l’accusò di camminare in maniera troppo vistosa e di attirare l’attenzione degli uomini, lei s’inviperì, gridò la sua innocenza in tutte le direzioni, poi si abbatté su una poltrona a piangere come una vite tagliata. Le accuse vere sviluppavano dentro di lei una furia da tigre, le facevano metter fuori urla e artigli per lacerarle e restituirle a pezzi, inoffensive e sconfitte, a colui che le aveva lanciate. Quelle false invece la lasciavano indifferente, e le ascoltava ridendo, raggomitolata su una delle poltroncine di raso del palazzo.