«Hugo farà il poeta.
E scriverà una poesia che faccia rima
con il clap clap delle scarpe
nelle pozzanghere».
María José Ferrada, da “Niños”
*****
I desaparecidos dell’Argentina
Nel quartiere di Pompeya,
ciascuno ha un nome e un volto,
Olivia, Jose, Emilio, Oscar, Cecilia, Esperanza…
Lo spazio che abitavano
resta riservato a loro
al tavolo nel lungo corridoio del centro sociale
dove i bambini imparano il tango
e le famiglie si riuniscono per dividere un pasto.
I desaparecidos sono un’ombra una casa sì
e una casa no in tutto il paese:
la sedia vuota nel salotto,
gli spazi tra i lavoratori ai picchetti,
il vuoto tra le braccia di una madre
o l’impronta nel letto accanto all’amante.
Trentamila vuoti continuano il viaggio finale
sul sedile posteriore o nel bagagliaio di Ford Falcon verdi
lanciate a tutta velocità nelle strade buie di Buenos Aires,
Cordoba o Resistencia:
continuano la loro caduta libera dagli elicotteri
nei luccicanti oceani sottostanti;
continuano a gridare nelle celle di tortura
delle fabbriche della morte, all’ESMA,
continuano a scavarsi la fossa in luoghi segreti;
continuano a rifiutare di confessare, o in altri casi,
si arrendono e denunciano la propria madre:
continuano a sentire lo scricchiolio delle ossa e i denti
che battono per la paura;
continuano ad essere inseguiti per vicoli ciechi o
fino alla porta di case in cui non rientreranno mai più
E’ così per i desaparecidos che non spariscono mai:
in Argentina sopravvivono più a lungo dei vivi.”
Clifton Ross, da “Translations from Silence – New and Selected Poems by Clifton Ross”, 2009
*****
*****
Foto repubblica. it
*****
Un volto è il tuo volto un deserto fiorito. I fiori recisi si amano.
Un volto che si ama è un fiore nel deserto come il deserto è
una notte per i fiori. Gli hanno svuotato le orbite, lo sapevi?
gli hanno reciso gli occhi, I fiori recisi gemono e i nostri volti
morti fioriscono nel deserto perché un volto è un volto nella
brevità delle cose così come i fiori sono un deserto nella
brevità della morte. Quando sono i fiori della notte ed è la notte
l’amore accecato che ci ama.
Un deserto è allora un deserto un sogno fiorito e il tuo volto
cieco e morto sale coprendosi di roseti perché i fiori ci amano
e sono notti i fiori del nostro amore cieco che si issa sui cieli
recisi.
E ci amano i fiori, sì Zurita ci amano, e recisi crescono dai tuoi
occhi ciechi per dirci l’amore che mai le nostre patrie ci hanno
detto, quando dalla tua notte svuotata è cresciuto il cielo e tutto il
cielo è stato il tuo volto pieno di fiori che saliva.
Perché i fiori ci amano. Perché ci amano i fiori recisi. Perché i
fiori morti, Zurita, ci amano.
Raúl Zurita , da “Inri”, 2021
*****
Immagine presa dal web
*****
La morte di Juan Domingo Peròn (1974) e il fallimento politico della moglie Isabel aprono la strada al golpe del 24 marzo del 1976, consegnando di fatto il Paese nelle mani di una Giunta militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla, che assume i pieni poteri. Comincia, per l’Argentina, la “guerra sucia” (“guerra sporca“), un conflitto non armato scatenato dal governo contro tutti gli oppositori, presunti o reali che siano. Violenze, sequestri, torture, omicidi, sono ormai all’ordine del giorno. Tra il 1976 e il 1983, in un clima di puro terrore, un numero imprecisato di persone viene sequestrato e sparisce senza lasciare traccia: sono i “desaparecidos“. “El silencio es salud” è il ritornello che ricorre in questi anni.
Il 30 aprile del 1977 sedici donne, madri di ragazzi e di ragazze desaparecidos, si riuniscono in Plaza de Mayo di fronte alla Casa Rosada (la sede del governo), manifestando pacificamente per ottenere notizie dei loro cari. Costrette dai militari ad allontanarsi, torneranno sistematicamente ogni giovedì, fingendo di camminare o di lavorare a maglia e in seguito trasformando la protesa in una marcia silenziosa. Ognuna delle “Madres de la Plaza de Mayo” porta sulla testa un fazzoletto bianco sul quale ha ricamato il nome del figlio scomparso. Derise dai militari, che le chiamano “locas” (“pazze”), molte di loro sono state arrestate e circa 700 sequestrate, torturate e uccise.
“Ci chiamavano le pazze, e qualcuno pensava che fosse un’offesa. Ci mettevano dentro tutti i giovedì, e noi ritornavamo. Ci dicevano, eccole lì, le pazze. Le arrestiamo e loro ritornano. Ma noi sapevamo di essere pazze d’amore, pazze dal desiderio di ritrovare i nostri figli… e poi, perché no? Un po’ di pazzia è importante per lottare. Abbiamo rovesciato il significato dell’insulto di quegli assassini.” (Madres de Plaza de Mayo, 1997)
Nel tempo, i nomi sui fazzoletti bianchi vengono sostituiti dalla scritta “Apariciòn con vida” (“Apparizione con vita”), uno slogan che segna la scelta di sostituire alla memoria individuale quella memoria collettiva che indica il dramma di tutto un popolo.
“Siamo tutte madri di tutti i nostri figli; una donna può partorire molti figli in modo diverso: il parto dal proprio ventre e il parto dal proprio cuore non sono differenti” (Madres de Plaza de Mayo, 1997).
“Madri dei guerriglieri, madri dei rivoluzionari, madri di tutti. Togliamo il nome dei figli dal fazzoletto e non portiamo più le loro foto con il nome. Facciamo così, perché quando lo chiederanno ad una madre lei possa dire “Si, siamo madri di 30.000 scomparsi” (La presidente delle Madri, Hebe de Bonafini).
Nel 1986 l’organizzazione si scinde in due gruppi, poiché alcune delle Madri decidono di accettare l’indennizzo offerto dal presidente Raúl Ricardo Alfonsín, necessario per far fronte ad una situazione economica disperata; altre, invece, considerano la proposta come un insulto alla giustizia.
Il 22 ottobre del 1977 prende forma il movimento delle “Abuelas de Plaza de Mayo“: sono le “nonne” delle donne incinte che erano state rinchiuse in centri di detenzione clandestina e alle quali erano stati sequestrati circa 500 neonati, dati in “adozione” a militari o a famiglie vicine al regime, i cui nomi e date di nascita erano stati cancellati dalla giunta militare. A fondare il nuovo movimento sono 12 donne, che si battono per riuscire a trovare e a restituire alle famiglie legittime tutti i bambini sequestrati.
“Crediamo che ciascuno di noi debba prendere in considerazione una forma di resistenza di fronte a questo sistema che in fondo non è molto diverso da quello che attuò il genocidio. Abbiamo grandi speranze riposte nei giovani che ogni giorno si avvicinano a noi. Molti sono i figli dei nostri figli. Il messaggio che desideriamo lasciare è la necessità di una lotta collettiva. In un cammino di lotta e resistenza, infatti, l’individualismo non esiste. Portiamo avanti gli ideali rivoluzionari dei nostri figli per un mondo più giusto e solidale. Fino al nostro ultimo giorno di vita, fino allo stremo delle nostre forze, le voci delle Madri e delle Nonne continueranno a risuonare nella Plaza de Mayo e nelle strade di questo paese insanguinato. Non esisterà sconfitta fino a quando una Madre o una Nonna con un fazzoletto bianco camminerà nella Piazza, o fino a quando un giovane, un lavoratore, una donna o un bambino si ribellerà contro l’ingiustizia o l’oppressione” (Madres de Plaza de Mayo 1997)