Libertà di parola
“Alla festa dei tuoi sessant’anni, nel bagliore della torta,
Ariel siede sulle tue nocche.
Gli dai da mangiare dell’uva, un acino nero, poi uno verde,
Dalle tue labbra increspate come in un bacio.
Perché sei così solenne? Tutti ridono,
Come fossero grati, l’intera compagnia –
Amici vecchi e nuovi,
Alcuni scrittori famosi, la tua corte di menti brillanti,
Editori, dottori e professori,
I loro occhi socchiusi in una felice risata —perfino
I papaveri tardivi ridono, uno perde un petalo.
Le candele tremano, le loro punte
Cercano di contenere la gioia. Anche la tua Mamma
Ride nella sua casa di riposo. Ridono i tuoi figli
Dagli angoli opposti del globo.
Il tuo Papà
Ride giù nella bara. E le stelle,
Anche le stelle, di sicuro,
Tremolano dal ridere.
E Ariel —
E Ariel?
Ariel è felice di essere qui.
Solo tu ed io non sorridiamo.”
*****
“Ti rivedo, più luminosa, più reale
Che negli anni immersi nella sua ombra –
Magari ti ho vista quell’unica volta, e poi mai più.
La cascata dei capelli sciolti – un sipario spiovente
Sul viso, sulla cicatrice. E il tuo viso
Elastica sfera di gioia
Attorno alla bocca ridente, uno spessore cremisi
Sulle labbra africane. E gli occhi
Strizzati nel viso, succo di diamanti,
Lucenti all’eccesso, lucenti come succo di lacrime
Forse lacrime di gioia, essenza di gioia.
Hai voluto travolgermi
Con il tuo brio.”
*****
“Per darsi ancora uno sguardo
Siamo ricomparsi
In dispensa, con le scorte di alcolici
Nascoste alla gentaglia.
Ho versato altro brandy, dietro la porta. Abbiamo bevuto.
Ti ho baciata. Che fossi ubriaca
O con la mente a un capolavoro, di colpo
hai aderito a me, il tuo corpo come l’acciaio,
Una morsa. Il bacio evolveva
Alla fine, mi hai preso la guancia sinistra tra i denti
Col viso sottosopra, una palla di gioia
Hai morso e stretto con tutta la forza. Mi sono liberato,
Io ridevo & e tu ridevi,
La gente irrompeva nella stanza.”
*****
“La tua adorazione aveva bisogno di un dio.
Se non c’era, ne trovava uno.
Comuni ragazzoni sportivi diventarono dèi –
divinizzati dalla tua infatuazione
che sembrava progettata fin dalla nascita per un dio.
Era un cerca-dio. Un trova-dio.
Papà ti aveva puntata su Dio
quando la sua morte fece scattare il grilletto.
In quel lampo
vedesti la tua vita. Il rimbalzo ti proiettò
lungo tutta la carriera di prima della classe
con la furia
di un proiettile ad alta velocità
che non può perdere una sola libbra-piede
di energia cinetica. Gli eletti
praticamente morivano all’impatto –
troppo mortali per incassare il colpo. Erano sostanza mentale,
provvisoria, speculativa, mera aura.
Eventi alla barriera del suono lungo la tua traiettoria.
Ma dentro il tuo Kleenex zuppo di singhiozzi
e i tuoi attacchi di panico il sabato sera,
sotto i capelli pettinati ora in questo ora in quel modo,
dietro quelli che sembravano rimbalzi
e la cascata di grida in diminuendo,
non deflettevi.
Al mio posto, il giusto medico-stregone
forse ti avrebbe afferrata al volo a mani nude,
ti avrebbe palleggiata, per raffreddarti,
senza dio, felice, pacificata.
Io riuscii solo ad afferrare
una ciocca di capelli, il tuo anello, l’orologio, la vestaglia.
da Shot
Ero una mosca fuori della finestra del mio stesso dramma familiare
Alzo gli occhi – come per incontrare la tua voce
con tutto il suo incalzante futuro
che mi è esploso addosso. Poi torno a guardare
il libro delle parole stampate.
Sei morta da dieci anni. È solo una storia.
La tua storia. La mia storia.”
*****
L’ultima lettera
Che successe quella notte? La tua ultima notte.
Doppia, tripla esposizione
Su tutto. Tardo pomeriggio, venerdì,
L’ultima volta che ti ho vista viva.
Tu che bruci la lettera che mi hai mandato nel posacenere
Con quello strano sorriso. Avevo incasinato il tuo piano?
Mi aveva sorpreso prima del previsto?
Mi ero affrettato a riportatela troppo presto?
Un’ora dopo—saresti andata
Dove non avrei potuto rintracciarti.
Mi sarei voltato dalla tua porta rossa chiusa
Che nessuno avrebbe aperto
Tenendo ancora in mano la tua lettera,
Un fulmine che non poteva scaricarsi al suolo.
Quello sarebbe stato un elettroshock
Per me.
Ancora e ancora, reiterato per tutto il weekend,
Tutte le volte che la leggevo o ci pensavo.
Questo avrebbe rifatto il mio cervello e la mia vita.
La terapia in programma necessitava di tempo.
Non posso immaginare
Come avrei fatto a superare quel weekend.
Non posso immaginare. Avevi pianificato tutto quanto?
Il tuo biglietto mi è arrivato troppo presto—quello stesso giorno,
Venerdì pomeriggio, spedito la mattina.
I potenti demoni l’hanno velocizzato.
Quella fu un’altra goccia di sfortuna
Scagliata contro di te dall’ufficio postale
E aggiunta al tuo fardello. Mi mossi in fretta,
Nel londinese tramonto bluastro della neve di febbraio.
Piansi di sollievo quando apristi la porta.
Un groviglio di arcani da risolvere. Lacrime precoci
Che non riuscirono a farmi comprendere, non riuscirono a confessare
Il loro vero significato. Ma che dicesti
Sui frammenti fumanti di quella lettera
Distrutta con tanta cura, con tanta calma,
Che mi permise di liberarti e lasciarti
A soffiare le sue ceneri dal tuo piano—dal posacenere
Contro il quale ti appoggiasti per farmi leggere
Il numero del Dottore.
La mia fuga
Era diventa una preda
Insonne, disperata, tutti i sogni esauriti,
Voleva solo essere ricatturata, voleva
Solo abbandonarsi al suo vuoto.
Due giorni di un niente sconnesso. Due giorni liberi.
Due giorni da nessun calendario, ma rubati
Da nessun mondo,
Al di là della realtà, del sentimento, o del nome.
La mia vita sentimentale li ha afferrati. La mia insensibile vita sentimentale
Con i suoi due aghi folli,
Che ricamavano la loro rosa, trafiggendo e strattonando
Il loro arazzo, il loro tatuaggio insanguinato
Da qualche parte dietro il mio ombelico,
Calpestando quel garbuglio di ricamo,
Due aghi folli, che ricamavano i loro punti,
Selezionando fra i miei nervi
I loro colori, rimodellandomi
Nella mia stessa pelle, uno rimodellando l’altro
Con le loro stesse caricature,
Le loro ossessioni dentro e fuori. Due donne
Ognuna con un ago.
Quella notte
La mia Susan Dellarobbia. Mi mossi
Con la circospezione
di fiamma in una miccia. Tutta la mia furia
Era uno sforzo rassegnato a far esplodere
Il vecchio globo dove le ombre si piegavano
Sulla mia traccia rivelatrice fatta di ceneri. Ho corso
Da lì all’indietro, un film al contrario,
Verso cosa? Siamo andati a Rugby Street
Dove tu ed io abbiamo iniziato.
Perché siamo andati lì? Di tutti i posti
Perché siamo andati lì? La perversione
Nella maestria del nostro destino
Fece le sue rifiniture per te, per me
E per Susan. Solitario
Giocato dal Minotauro di quel labirinto
Incluse anche Helen, nell’appartamento del piano terra.
L’avevi notata—una ragazza per una storia.
Non l’hai mai incontrata. Pochi l’hanno incontrata,
A eccezione delle orecchie e della maschera furiosa
del suo cane alsaziano. Non l’avevi neanche intravista.
Eri balzata indietro
Quando il suo stupido animale sbatté con tutto il peso
Contro la porta, mentre sgattaiolavamo per il corridoio;
E lo hai sentito strozzarsi con enorme odio tedesco.
Quella domenica sera lasciò la porta aperta
Quei pochi centimetri consentiti.
Susan salutò gli occhi neri, l’infelice
Viso carino e sovrappeso, che sbirciava
Attraverso la catenina. La porta si chiuse.
La sentimmo consolare il carceriere
Dentro la cella, la sua cuccia, dove, giorni dopo,
Gassò il suo feroce lupo e se stessa.
Susan ed io passammo quella notte
Nel nostro letto nuziale. Non l’avevo più visto
Da quando ci abbiamo dormito insieme il giorno del nostro matrimonio.
Non l’avevo riportata nel mio letto.
Mi era venuto in mente che, con la fine del weekend,
Tu potessi comparire—una visita a sorpresa.
Sei apparsa per bussare alla mia finestra buia?
Così rimasi con Susan, nascondendomi da te,
Nel nostro letto nuziale—lo stesso in cui
Tre anni dopo sarebbe stata portata via per morire
In quello stesso ospedale, dove, dodici ore dopo,
Ti avrei trovata morta.
Lunedì mattina
La accompagnai a lavoro, nella City,
Poi parcheggiai il mio van a nord di Euston Road
E tornai dove il telefono mi attendeva.
Che successe quella notte, nelle tue ore,
E’ ignoto come se non fosse mai accaduto.
L’accumulo di tutta la tua vita,
Come uno sforzo inconscio, come una nascita
Che spinge attraverso la membrana di ogni lento secondo
verso il prossimo, è accaduto
Come se non potesse accadere,
Come se non stesse accadendo. Quante volte
Il telefono ha squillato nella mia stanza vuota,
Tu che ascoltavi lo squillo dal ricevitore—
Ad entrambe le estremità il ricordo sbiadito
Di un telefono che suona, in un cervello
Come se fosse già morto. Conto
Le volte in cui sei andata alla cabina telefonica
In fondo a St George’s Terrace.
Sei lì ogni volta che guardo, giri da
Fitzroy Road, attraversi
Tra i mucchi accatastati di zucchero sporco.
Nel tuo lungo cappotto nero,
Con la tua treccia arrotolata sulla nuca
Cammini incapace di muoverti, o svegliarti, e sei già
Un nessuno che cammina
Che cammina lungo l’inferriata sotto Primrose Hill
Verso la cabina telefonica che non può mai essere raggiunta.
Prima di mezzanotte. Dopo mezzanotte. Di nuovo.
Di nuovo. Di nuovo. E di nuovo prima dell’alba.
A quale posizione delle lancette del mio orologio
Facesti l’ultimo tentativo,
Già largamente passata
La mia capacità di sentirlo, nello scuotere il cuscino
Di quel letto vuoto? Un’ultima volta a
Sfiorare i miei libri e i miei fogli?
Quando arrivai il mio telefono era muto.
Il cuscino innocente. La mia stanza addormentata,
Già inondata della luce nevosa del mattino.
Accesi il fuoco. Avevo tirato fuori i miei fogli
E avevo iniziato a scrivere quando il telefono
Si svegliò di soprassalto, nel suo suono stridente,
Ricordando ogni cosa. Si riprese nella mia mano.
Poi una voce come un’arma scelta
O un’iniezione misurata,
Pronunciò freddamente quattro parole
Nel profondo del mio orecchio:
“Sua moglie è morta.”
Ted Hughes, da “Lettere di compleanno” (“Birthday Letters“), 1998
Composte nell’arco di 25 anni e pubblicate e 35 anni dopo il suicidio di Sylvia Plath, queste 88 poesie non sono il racconto del loro rapporto, quanto piuttosto il tentativo, da parte di Hughes, di comunicare con lo spirito di sua moglie.