“Tu sai, mio carissimo – e lo sanno tutti – quanto ho perduto perdendo te; e come quella disgraziata storia e quel tradimento a tutti noto abbiano strappato insieme a te anche me a me stessa, e come il dolore sia incomparabilmente più forte per il modo in cui ti ho perso che per la perdita medesima. E poi, quanto più profonda è la radice del male, tanto più forti saranno i rimedi del conforto, che non devono venire da nessuno se non da te; e poiché tu solo sei la causa del male, tu solo puoi guarirmi.
Tu sei il solo, infatti, che possa affliggermi, e il solo che possa allietarmi o consolarmi. E sei anche il solo a dovermi particolarmente tanto, visto che ho seguito ogni tuo comando al punto che – non volendo in alcun modo arrecarti dispiacere – sono giunta a perdere me stessa, pur di obbedirti.
Ma ciò che più conta è che il mio amore fu a condurmi a una follia tale che ha allontanato da sé senza la speranza di poterlo riavere mai più l’oggetto stesso del suo desiderio. (…)
E Dio sa che in te non ho mai amato altro che te stesso: che solo te ho desiderato, non ciò che tu possedevi. Non mi ripromisi patti nuziali, né prerogative di sorta; né, come ben vedesti, mi adoperai a raggiungere voluttà né volontà mie, ma tue.
E se più santo e più valido sembra il nome di moglie, il nome di amica mi è sempre stato più dolce, o se non ti sdegni, di amante o concubina: poiché, quanto più mi umiliavo per te, tanto più suscitavo il tuo amore, e tanto meno offuscavo la gloria della tua superiorità. E tutto questo – nella lettera scritta all’amico per consolarlo – non lo hai, bontà tua, dimenticato del tutto; e neppure hai sdegnato esporre alcune delle ragioni con cui ho cercato di distoglierti dagli infausti talami di una nostra unione; ma hai taciuto la maggior parte delle ragioni per cui preferivo l’amore al matrimonio.
Chiamo Dio come mio testimone: se lo stesso Augusto signore del mondo intero mi avesse degnato dell’onore di sposarlo, e mi avesse offerto così il dominio perpetuo del mondo, sarebbe stata per me cosa più cara e degna esser detta tua prostituta piuttosto che sua imperatrice. Perché una persona non è migliore per ricchezza o potere: questo dipende dalla fortuna, quello da meriti personali.
E non può non credersi molto venale quella donna che sposa più volentieri un ricco che un povero e più che il marito ama i suoi beni. E una che si sposa per ricchezza non merita di essere amata, ma di esser pagata.
Ché di sicuro una donna del genere cerca le ricchezze, non un marito, e se potesse potrebbe addirittura prostituirsi per un uomo più ricco. Cosa dimostrata chiaramente da quella discussione che la filosofa Aspasia tenne con Senofonte e sua moglie, presso il socratico Eschine: discussione che – quando lei si era riproposta di conciliare i due sposi – fu suggellata con queste parole: «Poiché non avete avuto altro ideale che trovare sulla terra un uomo migliore o una donna più amabile, certamente troverete quella perfezione che cercate nel fatto che tu, o uomo, sei il marito della più amabile delle donne, e tu donna, sei la moglie del migliore degli uomini».
Opinione davvero santa e più che filosofica: attribuibile, cioè, piuttosto a Sofia che a Filosofia. È santo quest’inganno e beata l’illusione che tra i coniugi l’amore perfetto custodisca il vincolo matrimoniale non praticando la continenza dei corpi, ma attraverso il vincolo delle loro anime. Ma ciò che per altri è illusione, forniva invece a me una verità manifesta: quello che le altre donne credono infatti di sapere dei mariti, io, e tutto il mondo con me, non solo lo credevo, ma lo sapevo, e il mio amore per te era tanto più vero quanto lontano dall’inganno. Quale reo filosofo poteva infatti uguagliare la tua fama?
Quale regione o città o villaggio non anelava a vederti? Chi, dimmi, non accorreva a contemplarti quando avanzavi in pubblico, o chi non ti seguiva con lo sguardo fisso e con il collo dritto quando te ne andavi? Quale donna, o quale vergine, non ti desiderava nell’assenza? O non ardeva in tua presenza? Quale regina, o quale potentissima dama, non invidiava le mie gioie o il mio talamo?”
Da una Lettera di Eloisa ad Abelardo
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Due “literati“, Eloisa e Pietro Abelardo, due persone di straordinaria cultura, ma consegnate alla storia più che altro dalla passione che li legò.
Eloisa incontra Pietro Abelardo nel 1117, quando suo zio Fulberto, canonico della cattedrale di Notre-Dame, incarica il chierico di impartire lezioni di filosofia a sua nipote, che gli è stata affidata dai genitori perché si prenda cura della sua educazione.
Eloisa è un’adolescente di 17 anni. Abelardo ne ha una quarantina.
Lei è bellissima quanto intelligente e, nonostante la sua giovane età, possiede già una cultura invidiabile: ha studiato le arti liberali e conosce sia le lingue classiche che l’ebraico.
Lui è all’apice del successo, a Parigi è un idolo e ha già, al suo attivo, una straordinaria fama di teologo e di filosofo. Lo chiamano il “Golia“: vai a capire se per la sua statura culturale o per la scia di contrasti dottrinari, di polemiche e di scandali che lo hanno sempre seguito come una nuvola nera. Resta il fatto che questo appellativo solletica il suo ego spingendolo a firmare alcune lettere con questo nome.
Abelardo e Eloisa si innamorano.
“Col pretesto dello studio ci abbandonammo perdutamente all’amore, e proprio lo studio offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Il nostro desiderio non trascurò nessun aspetto dell’amore.”
Ricorda Abelardo nella sua autobiografia, “Historia mearum calamitarum” (“Storia delle mie disgrazie“), sottolineando come Eloisa avesse “tutto ciò che più seduce gli amanti“.
“Mi bastò ascoltarti una volta. La tua parola mi penetrò come fiamma luminosa e compatta, incendiando il mio cuore.” Gli scriverà Eloisa in una delle sue lettere.
Quando Fulberto scopre la loro storia d’amore, Eloisa è incinta. Abelardo la porta a Pallet, nella sua casa natale (in realtà, secondo alcune… “esegesi”, l’avrebbe rapita), e la affida alle cure di sua sorella. Qui nasce il loro bambino, al quale viene imposto il nome di Astrolabio.
I due amanti si sposano a Parigi, in gran segretezza visto che Abelardo è un chierico, dopodiché lui la conduce ad Argenteuil, nel monastero in cui Eloisa era stata educata, per poterla tenere al riparo dallo scandalo.
Non riescono, però, a sottrarsi alla furia di Fulberto e dei parenti di lei che, assoldati tre sicari, fanno evirare Abelardo, che va a cercare rifugio nell’abbazia benedettina di Saint-Denis. Le sue disavventure, però, non sono ancora finite: l’ennesimo contrasto dottrinario, ingaggiato questa volta con i monaci che lo hanno ospitato, e il sospetto di eresia, gli costano il carcere.
Tornato in libertà, Abelardo si rifugia a Troyes, in un luogo isolato in cui fonda l’oratorio “Paracleto“, di cui inviterà Eloisa a diventare la badessa.
Nel 1125, nell’instancabile altalena della sua vita, torna nuovamente all’apice del successo, tanto da essere nominato abate di Saint-Gildas di Rhuys.
“Mala tempora currunt“, però, per il povero Abelardo: i suoi monaci, considerandolo troppo severo, tentano per ben due volte di farlo fuori: prima, versando del veleno nel calice della messa, poi assoldando due sicari che cercano di ucciderlo mentre porta conforto ad un malato.
Pietro si rifugia a Nantes, riprendendo la sua attività di docente, ma l’accusa di eresia lo perseguita, soprattutto a ragione dei suoi contrasti dottrinari con il colto e potentissimo Bernardo di Chiaravalle.
Accolto dall’abate Pietro di Cluny, trova in lui un protettore ed un amico ed è proprio qui che riesce finalmente a trovare un po’ di pace.
Muore nel 1142. I suoi resti, dapprima inumati al Paracleto, nel 1817 verranno ricongiunti a quelli di Eloisa, morta nel 1164.
Oggi entrambi riposano a Parigi, nel Cimitero di Père-Lachaise.
Nell’immagine, una miniatura del “Codex Manesse”, 1300-1340