Affabulazioni

Specchio specchio

11.03.2023
Mia nonna era di Baeza. Aveva conosciuto la fame e la miseria quasi da sempre. E forse per questo era una donna estremamente
diffidente e abbastanza scettica. Per tutta la vita aveva lavorato duramente per mandare avanti un marito malato, che di tanto in tanto guariva miracolosamente e le dava una mano per dar da mangiare ai suoi sei figli. Mia nonna Genara fu uno di quegli schiavi della noria che non alzò mai la testa; per colmo di sventura, le toccò in sorte un marito anarchico e romantico, difensore di cause povere, povero lui stesso, una specie di don Chisciotte che, in mancanza di Ronzinante, suonava la chitarra e scriveva versi. Mio nonno era di antica famiglia della Castiglia e uomo dabbene. Era anche un uomo di carattere. Per di più, era calvo da quando aveva ventisette anni. La sua calvizie e il suo senso della dignità furono sul punto di costargli la vita e furono la causa della miseria della famiglia. Mio nonno si chiamava Faustino ed era fotografo degli accampamenti militari a Ceuta.
Nel 1915 la famiglia se la cavava bene dato che mia nonna era un’eccellente aiutante fotografa. Ma un brutto giorno, mio nonno era chino a fissare il trepiede, quando a un tenente venne la brillante idea di sputargli sulla pelata che, sembra, brillasse notevolmente sotto il sole marocchino, e anche perché mio nonno era un uomo pulitissimo. Il tenente ricevette in risposta alla sua gentilezza una solenne bastonata. Mio nonno fu sul punto di
finire davanti al tribunale militare in quanto aggregato al corpo militare e infine si limitarono ad espellerlo da Ceuta e, naturalmente, lasciarlo senza lavoro.
A partire da quel momento, la famiglia passò di disastro in disastro e la mia povera nonna percorse la metà del territorio spagnolo con la macchina fotografica e il treppiede sulla spalla, accompagnata dal figlio maschio maggiore, che aveva la rispettabile età di dodici anni, mentre mia madre, che ne aveva tredici, accudiva i fratelli e il padre infermo. Questi eventi, uniti ad altri della sua infanzia e giovinezza (la miseria suole lasciarci senza infanzia e giovinezza), influenzarono il carattere della nonna indurendola e facendo di lei un personaggio che sembrava sfuggito alla tavolozza di Solana. Dalla vita si aspettava solo sventure e miseria e quando le capitava una gioia si metteva a tremare ed era quasi incapace di goderne pensando alla disgrazia che sarebbe seguita.
Fortunatamente per lui, mio nonno morì nell’aprile del millenovecentotrentasei. Non così mia nonna, che visse fino al sessantanove. È chiaro che mia nonna era venuta a questo mondo di culo. La poverina aveva lo spirito nero, ma la verità è che non ebbe mai alcuna ragione per averlo di altro colore. Fin da quando era nata non aveva conosciuto altro che miseria e fatica. Quando finalmente i suoi figli furono cresciuti, le figlie si sposarono e la famiglia entrò in un periodo, se non di abbondanza, almeno di stabilità e calma, allora, proprio allora, le muore il marito e scoppiò l’inferno della guerra civile.
Nel millenovecentotrentasei io avevo sei anni. Ricordo molto bene il viso da don Chisciotte del nonno, con i suoi dolci occhi neri e l’incredibile allegria, che contrastava con la stoica tristezza della nonna. Pochissime volte ho visto ridere mia nonna. La famiglia di mia madre apparteneva a quella sfortunata classe che non è né proletaria né media e tanto meno alta. Mia nonna sapeva leggere e scrivere e aveva una facilità sorprendente con i numeri: sommava, sottraeva e moltiplicava a velocità sbalorditiva. E qui finiva tutta la sua istruzione. Mio nonno apparteneva a una famiglia di commercianti di Salamanca e aveva ricevuto un’educazione più ampia, benché neanche si possa dire che fosse un uomo colto. Doveva aver ricevuto un tipo di istruzione non troppo profonda e soprattutto un gran bagaglio di usi e costumi: il comportamento di un gentiluomo. E, a sua volta, educò la sua famiglia seguendo quegli usi e costumi. Di modo che le sue figlie non ricevettero alcun tipo di istruzione, ma impararono a comportarsi come “signorine”. Questa miscela condusse la famiglia a sopportare la sua penosa situazione economica con una gran dignità.
Tutto questo fece sì che quando il disastro del trentasei ci crollò addosso, mia nonna che, dopo la morte del marito, era venuta a vivere con i miei genitori, accettasse quell’orrore con la naturalezza di chi già possiede un lungo apprendistato di disgrazie.
In quei giorni di caos ed esodo continuo – la mia famiglia seguì il Governo della Repubblica da Madrid a Valencia e da Valencia a Barcellona – l’unica che rimase uguale fu la nonna. Si preoccupava solo che non ci cadesse una bomba in testa e di riuscire a mettere da parte un po’ di soldi per quando tutto quello sarebbe finito. Alla poverina non venne in mente di pensare che quel denaro avrebbe potuto non servire a niente. Quando, finalmente, tutto finì, la nonna si ritrovò, come sempre, con le mani vuote.
Nel millenovecentoquaranta la famiglia era devastata. Due fratelli di mia madre, di venti e diciassette anni, stavano in un campo di concentramento, e mio padre in carcere. La nonna smosse cielo e terra per tirar fuori i ragazzi dal campo di concentramento. Un giorno ci riuscì e due scheletri sorridenti cominciarono a distribuirci abbracci e baci. Arrivarono quasi clandestinamente e per pura casualità o miracolo e ci ritrovammo insieme senza osare essere contenti e senza sapere che fare con la fame spaventosa che avevamo tutti. Mia madre non si allontanava dalla porta del carcere aspettando una qualche notizia. La nonna, con i suoi sessant’anni, si mise alla ricerca di un qualsiasi tipo di lavoro. Non c’era niente da fare. Madrid era una specie di rovina attraverso la quale passavano altre rovine.
La fame mi faceva diventare pazza. Non riuscivo a pensare ad altro che non fosse mangiare. Avevo mangiato di tutto: bucce di patate, di arance, di banane. Ma arrivò un momento in cui non ci fu neanche quello. Ricordo che un giorno venni a sapere che c’era un posto che si chiamava “Ausilio Social” in cui distribuivano cibo. Lo dissi alla mamma e alla nonna. Mi dissero di no, che era molto pericoloso per gli zii, che dovevo restare a casa zitta senza parlare con nessuno e che, per di più, era una vergogna, che papà stava in carcere e che io non potevo andare a mendicare del cibo proprio da quei “signori” che erano quelli che lo avevano incarcerato. La mia fame era condannata alla clandestinità.
In genere, ero obbediente. Inoltre, tutti gli orrori che avevo visto durante la guerra avevano reso i miei dieci anni molto previdenti. Ma la fame è qualcosa di molto difficile da controllare. Feci una serie infinita di considerazioni: chi avrebbe riconosciuto una bambina di dieci anni? Nessuno. Non poteva succedere niente, era chiaro. E in quanto al fatto che non potevo andare a mendicare cibo da quelli che avevano messo in prigione papà, calcolai che se fossi morta – e sentivo che sarei morta – a poco sarebbe servito a mio padre il mio orgoglio. Insomma, una mattina, quando mamma uscì per andare al carcere e la nonna per cercare lavoro, io afferrai un tegamino e andai all’“Ausilio Social” per farmi dare da mangiare. A casa restava solo zio Pepe, diciassette anni stesi per terra perché la fame non lo faceva stare in piedi.
L’“Ausilio Social” stava in via Martínez Campos. Non lo dimentico. C’era una fila che mi sembrò lunghissima, quasi tutta di donne, bambini e vecchi. Cominciai a temere che non arrivassero fino a me. Non riuscivo a immaginare tanto cibo tutto insieme. Guardai il palazzo. Era un convento di suore della carità, ma c’erano due donne vestite da falangiste che stavano aiutando le monache. Mi venne un panico mortale. E se mamma e la nonna avevano ragione e quando io arrivavo invece di darmi da mangiare mi acciuffavano? La coda avanzava e io mi sentivo i piedi di piombo. Ma la fame era più forte della paura. Continuai. Infine arrivò il mio turno: allungai il mio tegamino; non ricordo chi me lo riempì, ma lo riempirono di una cosa meravigliosa che erano ceci con riso. Mi diedero, anche, un cucchiaio di legno. Uscii di corsa.
E allora cominciò la tortura. Prima la vergogna perché mi avevano dato l’elemosina come a un mendicante, e poi l’ansia di mangiare. Avevo tanta fame che mi battevano i denti. E lì dentro c’era il maledetto cucchiaio di legno. Mi feci ogni tipo di raccomandazione: a casa eravamo in cinque e tutti morti di fame, io non avevo diritto a mangiare neanche una cucchiaiata di quella minestra. Avevo cominciato a camminare piano per paura che mi cadesse il tegame. All’improvviso non ne potei più: cominciai a mangiare mentre piangevo disperatamente.Sentivo che mi soffocava una specie di vergogna, disgusto e allo stesso tempo una incontrollabile soddisfazione. Dovevo averne mangiato circa tre cucchiai. Ricordo a malapena come tornai a casa. La nonna e la mamma erano tornate. Non mi dissero neanche una parola. Mi abbracciarono una da ogni lato, piangendo e mangiando entrambe. A Pepe dovemmo dargli da mangiare lentamente perché il suo stomaco non lo riteneva.
Quando finimmo l’ultimo cece, la nonna mi disse molto seria: “Bambina questa è stata la prima e l’ultima volta. La Divina Provvidenza mi ha fatto trovare un lavoro: cucire casacche militari” Mia nonna non andò mai in chiesa, ma credeva fervidamente nella Divina Provvidenza.
Francisca Aguirre, da “Specchio, specchio”, 2018
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Immagine in evidenza: Lorenzo Aguirre, “L’attesa”, 1919

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