“Non siamo fatti per morire, ma per nascere”, affermava Hannah Arendt.
Tuttavia la nostra vita inizia a morire già con il suo primo respiro. Non solo perché la morte è il destino inesorabile che ci attende alla fine della vita, ma perché in ogni istante della nostra vita c’è qualcosa che si perde, si stacca, si separa da noi stessi, scompare. In questo senso la morte non è, come ricordava Heidegger, l’ultima nota della melodia dell’esistenza che ne chiude il movimento, ma una “imminenza sovrastante” che ci accompagna da sempre. Questa imminenza sovrastante della morte definisce propriamente la forma umana della vita. L’esistenza di un fiore o di un animale vive senza conoscerla. Il fiore e l’animale sono, infatti, espressioni di una vita eterna. Anch’essi sono destinati a perire, ma la loro vita non conosce l’assillo e il pensiero della morte. La vita animale è vita sempre piena di vita, vita che non conosce la ferita della finitezza o, meglio, che non conosce la finitezza come ferita necessariamente mortale della vita.
L’uccello nel cielo, come il giglio nei campi, per riprendere una nota immagine evangelica, non conoscono l’erosione del tempo perché vivono in un eterno presente, in un solo grande “oggi”. Essi hanno deposto ogni forma di attesa, non restano sotto il peso incombente della fine perché il loro beato magistero ha sospeso il divenire del tempo in un “adesso” che non si lascia corrompere dal divenire delle cose. La vita animale, come quella vegetale, non esclude affatto la fine – il cane, come il fiore, perisce, la sua esistenza, come quella umana, ha “i giorni contati”, come direbbe il “Qoèlet” biblico –, tuttavia non conosce affatto la morte come destino incombente in ogni momento della vita, come possibilità sempre possibile o come impossibilità di tutte le nostre possibilità. Per questa ragione nella loro forma di vita – la vita piena di vita, vita che coincide con se stessa – non vivono la separazione da se stessi, non vivono né lo struggimento del desiderio né la pena della mancanza dalla quale esso sorge.
Nella forma umana della vita la morte è in primo piano: la morte di un essere umano avviene sempre troppo presto, sempre in anticipo, ingiustamente prematura. Anche un anziano che muore incarna l’ingiustizia della fine, la terribile legge del tempo alla quale non possiamo sottrarci. Mentre il re dei camosci raccontato da Erri De Luca ne “Il peso della farfalla” si isola dal branco per andare incontro con saggezza istintuale al suo destino, la vita umana tende a rifiutare il tempo della morte, vorrebbe poter vivere senza considerare la presenza della morte. Tuttavia, come sappiamo, la sua necessità ineluttabile si combina con la sua contingenza imprevedibile. La nostra vita finirà di sicuro nelle braccia della morte, ma nessuno di noi può sapere quando. L’evento della morte è certo e incerto nello stesso tempo. È una delle ragioni, come Heidegger ha insegnato, che definisce l’angoscia come la nostra condizione affettiva fondamentale.”