Affabulazioni

La vita agra

27.03.2023
Spesso la sera, dopo rigovernati i piatti, uscivamo a passeggio nella nebbia. Fuori non s’incontrava una persona, soltanto nel cono di luce sporca dei lampioni qualche larva imbacuccata e frettolosa che scantonava verso casa fra lo sfrecciare delle automobili nere. Uscendo dai cinematografi a mezzanotte precisa filavano a letto, e li vedevo in faccia solo nell’attimo che sostavano dinanzi al portone per tirar fuori la chiave e aprire. Là poi si rinserravano subito dentro. Non una finestra illuminata: a quell’ora tutti avevano sbarrato le imposte e dormivano.
Lì nei paraggi c’erano un paio di bar con la televisione, il padrone sul podio della cassa con gli occhi vigili, perché tutti consumassero qualcosa, e la gente stava ammutolita a guardare. Qualche volta con Anna ci entrammo, cercando di attaccare discorso con gli spettatori, ridendo alle papere del presentatore, il giovedì sera, ma la gente ci guardava appena, e un po’ storto anzi, e una sera un tale borbottò: «Ma che cosa ci sarebbe da ridere? Sai la grana che si fa, quello, altro che ridere.»
Dicevano tutti la grana. La grana e poi i dané. La grana sarebbe quella che si prende, i dané quelli che si pagano, mi pare di aver capito.
«Ci vogliono tanti dané,» dicevano appunto le donnette la mattina al mercato rionale, che era un grande padiglione basso e largo proprio in mezzo alla piazza.
«Eh, sì, tanti dané.» E così dicendo sostavano in fila silenziosa, tutte inteccherite davanti ai carrettini della frutta, dove un meridionale nero e berciante pesava le arance e le buttava in un imbuto di carta gialla. «Tanti dané.»
«La grana, la grana» diceva invece il droghiere. Lo diceva con gli occhi, e con gli occhi stimolava il commesso, piccoletto e nervoso, a fare presto, a fare tanta grana e subito.
«Desidera?»
Bisogna essere svelti a dire che cosa, perché dietro urgeva altra gente, e la drogheria aveva il nome di mettere tutto dieci lire meno delle altre, di farti spendere meno dané.
«Mezzo chilo di stoccafisso.»
«E poi?»
«Una scatola di tonno.»
«E poi?»
«Tre etti di acciughe.»
«E poi?»
«Borotalco.»
«E poi?»
«Una bottiglia di acquetta.»
«Cosa l’è l’acquetta?»
«La varechina.»
«Sa l’è la varechina?»
«La candeggina.»
«Ah, e poi?»
Se non dicevi che cosa, dopo l’e poi, il commesso passava subito a un altro cliente, quello che ti stava fiatando ansioso nel collo, e a te toccava rifare tutta la coda daccapo. Così imparammo a rispondere a tono, e a entrare in negozio con le idee precise su cosa prendere.
«Uno e quaranta», urlava alla fine il commesso rivolto alla cassa, dove sedeva la figliola del padrone, una toscana grassa ma efficientissima. «Cinquanta, centocinquanta, sessantacinque, due e dieci. Uno, due, tre, quattro, cinque pezzi.»
La toscana aveva già fatto il totale, si pagava, lei metteva un timbro sul conto, dava il resto e il foglietto timbrato, e con quello il commesso consegnava il pacchetto della roba.
Oltre il padiglione del mercato rionale c’erano l’ambulatorio, la chiesa con annesso oratorio che il sabato sera e la domenica faceva anche un po’ di cinema, e consentivano l’ingresso anche ai miscredenti, e nemmeno tentavano di convertire, bastava pagare, bastavano quei pochi dané; poi c’era un budello corto di vecchie case e più oltre si apriva l’immenso sterrato dove un tempo facevano scalo i treni merci.
Abbandonata, la terra aveva buttato su sterpi, erbacce, marruche alte come un uomo, una specie di sottobosco incolto e ineguale, con buche, avvallamenti, montarozzi di scarico e di spazzatura. Di giorno ci andavano i ragazzini a giocare agli indiani, ma di notte si riempiva di larve indistinte in quella scarsa luce frammezzo alla nebbia che si abbioccolava sugli sterpi. A sostare nella strada vicina, le vedevi, contro i lumi opposti e lontani, muoversi, sparire, incontrarsi, dividersi ancora, scomparire. Sul ciglio della strada si fermava a tratti un’automobile coi fanalini rossi di dietro sempre accesi e dentro altre due larve che avvinghiate si contorcevano, grottesche.
Era una bolgia di purgatorio, e mai ho saputo con precisione se quelle larve fossero uomini oppure donne, persone vere o fantasmi. Ricordo una sera di sabato che avevo litigato con Anna per le solite storie, e mi aggiravo fra le marruche della bolgia con in corpo una gran cattiveria triste e pensieri atroci. Mi passò accanto una larva e sentii una specie di sibilo sottile e insistente, e allora decisi di scappare subito a casa, da Anna, di far subito la pace, ma proprio al principio del corto budello, accanto a un distributore di benzina, c’era un uomo steso per terra, di certo un ubriaco, perché spesso la sera del sabato si sentiva il canto iroso e sconnesso di qualche ubriaco rimasto solo. L’uomo per terra aveva i capelli bianchi e adesso guardava me con un sorriso ebete.
«Come va?» gli chiesi. «Vuoi una mano?»
Brontolò qualcosa in dialetto, di gola, si tirò su a sedere e mi tese la mano.
Avevo capito che intendeva dirmi aiutami a rialzarmi in piedi, e infatti lo aiutai. Per un poco anzi lo sostenni sotto le ascelle, ma appena l’ebbi lasciato, e lui tentò di andarsene con le gambe sue, barcollò e cadde all’indietro.
Ci rimase secco, e mi guardava ancora, ma senza più il sorriso ebete, anzi con occhi di vetro, e quando mi chinai a vedere meglio scorsi un filo di sangue che gli usciva dalla nuca e si spandeva nero sul selciato. Al bar lì accanto avevo già visto quattro uomini senza cravatta che giocavano a carte, e così andai là, a dire che c’era un ubriaco ferito, e che da solo non ce la facevo a rimetterlo in piedi, e che anzi provandoci m’era caduto sbattendo la testa. I quattro alzarono appena gli occhi, senza dire niente.
«Be’» fece poi uno, visto che io non me ne andavo.
«C’è un ubriaco là per terra.»
«E allora?»
«Datemi una mano a rialzarlo.»
«Si rialzerà da sé.»
«Non ce la fa. L’ho aiutato io, ma m’è ricaduto e perde sangue.»
«E noi cosa ci entriamo? È successo a lei, no? Se la veda lei.» E riattaccarono a giocare a carte.
«La croce rossa» mi disse allora una donna che stava lì vicino seduta davanti a un bicchiere. «Telefoni alla croce rossa.»
Andai al banco e chiesi dov’era il telefono.
«Non è a gettone» mi disse l’uomo.
«Mi faccia telefonare lo stesso.»
«Non è a gettone» ripeté. «Là davanti, vada. Quello è a gettone.»
Là davanti mi rivolsi alla cassiera: «C’è un ferito per strada, mi dia il numero della croce rossa, per favore.»
«Vuol telefonare da qui?»
«Sì, non è un telefono pubblico?»
«Sì, ma mi raccomando, non faccia il nome del locale, questo è un locale per bene e non vogliamo storie con la croce rossa.»
«Va bene, non faccio nomi. Mi dia il numero.»
«Se lo cerchi sulla guida.» E mi indicò il mobiletto sotto il telefono. Cercai il numero, poi chiesi il gettone.
«La moneta» fece la donna.
«Cosa?»
«Le venti lire.»
Giele diedi ed ebbi il gettone. La croce rossa prima risultò occupata, poi mi dissero che l’ambulanza era fuori, ma che avrebbero provveduto subito: chiesero la strada, e io gliela indicai. Rimasi là fuori sul marciapiede, con le mani in tasca, e di fronte vedevo la figura del vecchio sempre stesa sul selciato. Qualche larva, rincasando, quasi ci inciampò. Venne una coppia, scartarono per non pestarlo, e tirarono diritto.
Io restavo lì, fermo, e non potevo farci nulla: non muovere l’ubriaco, perché aveva battuto il capo e io sapevo che può essere molto pericoloso. Non chiedere aiuto a qualcuno, perché tutti badavano ai fatti loro. Solo attendere che arrivasse l’ambulanza. Dopo un po’ decisi di tornare a casa, anche per raccontarlo ad Anna, ma lei era sempre rabbiosa contro di me, e se ne stava curva al tavolino, a far finta di leggere. Mi stesi sul letto senza spegnere la luce, e sentivo quanto era ostile, Anna, dietro l’armadio, perciò non le dissi nulla. Stavo così, zitto e teso, a occhi aperti. Passò un’ora prima della sirena dell’ambulanza. Il giorno dopo, in tram, cercai nella cronaca e ci lessi appunto che un ubriaco sessantacinquenne, non identificato sinora, era morto per frattura della base cranica, in seguito a una caduta da ritenersi accidentale.
Del resto succedeva ogni giorno, mi spiegarono i colleghi in ufficio quando glielo raccontai: un malato d’infarto che muore sul marciapiede davanti all’ingresso dell’ospedale, senza poterci entrare perché non ha pronti i soldi del deposito o in regola le marchette della mutua, intere famiglie falciate da un camion con rimorchio, vecchiette stritolate dalle ruote del tram perché non hanno saputo salire a tempo, e sono rimaste con un piede impigliato nelle porte automatiche. Ingenuo ero io a meravigliarmene. A New York, per esempio, altro che qui! Centinaia di morti ogni giorno in incidenti del genere. E anche a Londra. E a Calcutta migliaia di morti di fame, ogni giorno. Il mondo è fatto in questo modo, non l’avevo ancora capito?”
Luciano Bianciardi, da “La vita agra”, 1962
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In evidenza: Foto di Edmondo Senatore

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