“C’era una volta un mondo, e un uomo e una donna un bel mattino vi giunsero con l’intenzione di farvi una breve visita, senza abitarvi a lungo. Conoscevano molti altri mondi e questo ai loro occhi appariva come il più povero e squallido di tutti. In realtà era piuttosto bello se si considerano gli alberi e le montagne, le foreste e i piccoli boschi, i cieli sopra le nuvole sempre cangianti e il vento che correva dolcemente al tramonto mescolando tutto in modo tanto misterioso. Pure, era un mondo ben povero se paragonato a quelli che i due possedevano molto, molto lontano. Perciò decisero di rimanervi per poco tempo poiché si amavano l’un l’altro e sembrava che non ci fosse posto migliore di questo mondo per il loro amore meraviglioso. Qui l’amore non era qualcosa di scontato e che permeasse tutto e tutti, era semmai come un visitatore dal quale ci aspettiamo che ci ferisca. Tutto quel che era stato limpido e naturale nella loro vita prima di allora si fece misterioso, sinistro e un tantino vile. Divennero come estranei abbandonati a poteri sconosciuti. L’amore che li univa era una meraviglia, per quanto effimero. Poteva svanire, morirsene. Quindi vollero rimanere in questo nuovo mondo per un periodo limitato.
Non splendeva sempre la luce del sole. Quando questa se ne andava, incombeva il crepuscolo sprofondandoli nella dimenticanza. Uomo e donna giacevano insieme al buio udendo il vento che sussurrava tra gli alberi. Si accostavano di più l’uno all’altra domandandosi “perché mai siamo qui”?
E l’uomo costruì una casa per sé e per la moglie, fatta di pietre e cumuli di muschio: non dovevano trasferirsi a breve? La donna strofinò sul pavimento di terra un’erba dal profumo dolce attendendo l’uomo al crepuscolo. Si amavano l’un l’altra più che mai prima e presero a svolgere insieme le cose di ogni giorno.
Accadde che una volta l’uomo si trovò fuori nei campi e sentì un forte richiamo per lei e questa sensazione sovrastava tutto il resto. Si chinò baciando la terra dove lei si era coricata in passato. La donna incominciò ad amare gli alberi e le nuvole perché il suo uomo passava di lì tornando a casa da lei, e lei amava il tramonto, per giunta, perché in quell’istante lui arrivava di nuovo da lei. Era strano questo nuovo mondo, ben diverso da quelli di prima, posseduti da distante.
E la donna diede natali a un figlio. La quercia fuori dalla casa cantò per lui nel vento, vegliò su di lui mentre lui la fissava con occhi sorpresi cadendo nel sonno al suono della ninnananna del vento tra gli alberi. Ma poi l’uomo venne a casa la notte portando le carcasse insanguinate di animali scannati; era stanco e aveva bisogno di riposare. Mentre stavano distesi al buio, l’uomo e la donna si parlavano sussurrando della loro prossima partenza.
E che strano mondo era quello; l’estate seguita dall’autunno e dall’inverno gelato seguito a sua volta da una primavera deliziosa. Si poteva vedere il tempo che scorreva mentre le stagioni si davano il cambio; mai nulla restava troppo a lungo. La donna concepì un altro figlio e dopo pochi anni un altro, ancora. I bambini crebbero e si diedero da fare, correvano e giocavano e scoprivano cose nuove ogni giorno. Nulla era troppo serioso per non diventare un pupazzo. Le mani dell’uomo si fecero callose per il duro lavoro nei campi e nella foresta. I tratti della donna divennero più tirati e i suoi passi scattavano più lenti di prima ma la sua voce era di velluto, la stessa melodia di sempre. Una sera che si sedette dopo una giornata impegnativa, raccolti i figli attorno a sé, disse “Ora ci trasferiamo in altri mondi dove abbiamo già casa”. I bambini la guardarono ben perplessi. “Ma cosa dici mamma? Ci sono altri mondi oltre questo?” Gli occhi della madre si incrociarono con quelli del marito e il dolore avvinghiò i loro cuori. Rispose dolcemente: “Certo che ce ne sono”, e prese a dir loro di mondi così diversi da quello in cui vivevano, mondi dove c’era spazio a meraviglia, non c’era il buio, né gli alberi cantavano né ci si doveva stancare per niente.
I bambini le si fecero più vicini ascoltando la sua storia. Continuavano a fissare il padre come per chiedergli: “è vero quel che ci dice mamma?” E lui accennava solo col capo e sedeva sprofondato nei suoi pensieri. Il figlio più piccolo stava ai piedi della madre, la faccia pallida, gli occhi di una luce strana. Il più grande, di dodici anni, stava lontano e fissava qualcosa discosto. Alla fine si alzò e se ne uscì nel buio.
La madre proseguì con la sua storia e i bambini la ascoltavano avidamente. Sembrava che avesse incastrata negli occhi una terra ben lontana e invisibile; di tanto in tanto si fermava come se non riuscisse più a vederla né a ricordarla. Dopo un poco, però, riprendeva a narrare con una voce sempre più fioca. La fiamma nel focolare si stava per spegnere nella cenere ma illuminava ancora i loro volti dando calore alla stanza. Il padre intrecciò le mani davanti agli occhi. E sedettero senza più agitarsi fino a mezzanotte. Poi la porta si aprì; un refolo di aria gelida invase la stanza e apparve il figlio maggiore tenendo in mano un uccello nero zampillante sangue dal petto. Era il primo uccello che avesse ucciso da solo. Lo buttò davanti al fuoco e arrivò puzza di sangue caldo. Poi, sempre senza dire parola, se ne andò in un angolo buio della stanza e si accovacciò.
Ora tutto era placato; la madre aveva finito con la storia. Si guardarono turbati l’un l’altro come risvegliandosi dopo un sogno e fissarono l’uccello che stava lì, ucciso, il sangue che scorreva da lui inondando il pavimento. Si alzarono tutti in silenzio e andarono a dormire.
Dopo quella notte, corsero poche parole. Ognuno prese la sua strada.
Era estate, le api percorrevano i prati rigogliosi, i muschi erano di un verde brillante come lavati dalle dolci piogge della primavera e l’aria di una chiarezza cristallina. Una volta, a mezzogiorno, il bambino più piccolo andò da sua madre che sedeva fuori dalla casa. Era molto pallido e quieto e le domandò qualcosa sull’altro mondo. La madre lo guardò meravigliata. “Piccolo – gli disse – non posso farlo ora. Guarda come splende il sole! Perché non vai fuori a giocare coi tuoi fratelli?” E lui se ne andò in silenzio e piangendo ma nessuno lo seppe.
Non domandò più nulla, solo si fece sempre più pallido, gli occhi come infiammati da una strana luce.
Una mattina non riusciva proprio a sollevarsi e rimase lì. Giorno dopo giorno restò lì senza dire troppe parole, solo guardandosi intorno con occhi perplessi. Gli chiesero dove sentisse male e gli promisero che sarebbe uscito presto alla luce del sole per vedere di nuovo tutti quei bei fiori nuovi che erano sbocciati. Lui non rispose e restò nello stesso punto senza nemmeno guardarli. Sua madre vegliò su di lui piangendo e si chiedeva se dovesse dirgli delle cose meravigliose che sapeva, ma lui si limitava a sorriderle.
Una notte chiuse gli occhi e morì. Tutti gli si fecero intorno, la madre gli raccolse le manine sul petto e quando piombò il crepuscolo si sedettero in cerchio nella stanza che si oscurava parlando di lui a sussurri. Aveva lasciato questo mondo, dicevano, andandosene nell’altro, quello migliore e più lieto, ma lo dicevano col cuore che era un macigno, sospirando.
Alla fine se ne andarono spaventati e confusi, lasciandolo deposto lì, al freddo e dimenticato.
Al mattino lo seppellirono nella terra. I prati mandavano il loro profumo, il sole splendeva con delicatezza e c’era un gentile tepore tutto intorno. La madre disse: “Lui non è più qui.” Esplose un roseto affianco alla sua sepoltura.
E così gli anni andavano e venivano. Spesso la madre si sedeva presso la sepoltura al pomeriggio, guardando di là dalle montagne che li separavano da tutto il resto. Il padre si fermava presso la tomba ogni volta che passava da quelle parti, mentre i bambini non le si avvicinavano mai perché quello era un posto diverso da tutti gli altri.
I due ragazzi crebbero come forti giovanotti, ma l’uomo e la donna presero ad assottigliarsi e a svanire. I capelli si fecero grigi, le spalle si abbassarono e però cadde su di loro come una pace e una dignità. Il padre continuava a cercare di andare a caccia insieme ai figli, ma erano loro ad affrontare gli animali quando erano di quelli selvaggi e pericolosi.
La madre, invecchiando, sedeva fuori dalla casa e si attorcigliava le mani quando li sentiva tornare. I suoi occhi adesso erano così stanchi da non riuscire a veder nulla a mezzogiorno quando il sole era al sommo nel cielo. In altri momenti tutto le si faceva buio intorno e lei chiedeva agli altri come mai succedesse questa cosa.
Un giorno d’autunno se ne andò all’aperto e si accovacciò ascoltando il vento come fosse il ricordo di un passato molto lontano. L’uomo le si accostò e parlarono di tutto come fossero tornati i tempi in cui erano soli al mondo. Lei si era fatta molto fragile, ma una luce interiore le illuminava i lineamenti.
Una notte lei disse a tutti quanti: “Adesso voglio lasciare questo mondo dove ho trascorso la mia vita e andarmene a casa”.
Così se ne andò via.
La seppellirono nei campi e lì rimase.
Fu inverno una volta ancora e fece molto freddo. L’uomo non andava più fuori rimanendo vicino al fuoco. I figli tornarono a casa con carcasse che presero a tagliare. L’uomo ne pose la carne al fuoco osservandolo farsi di colore più brillante nei punti in cui la carne si arrostiva. Quando fu primavera uscì a guardare gli alberi e i campi in tutto il loro verde. Si fermava ogni momento dando un cenno di riconoscimento. Tutto gli era familiare. Si fermò vicino ai fiori che aveva colto per lei che amava, la prima volta che erano giunti qui. Si fermò davanti alle sue armi da caccia ora coperte di sangue perché nessuno dei figli le aveva prese in mano. Poi se ne tornò a casa e si accovacciò e disse ai suoi figli di stargli accanto.
“Ora devo partirmene da questo mondo dove ho vissuto la mia vita e lasciarlo. La nostra casa non è qui.”
Tenne le loro mani nelle sue finché morì. Lo seppellirono in quel punto dei campi che aveva richiesto perché lì desiderava giacere.
Ora che entrambi gli anziani se ne erano andati, i due figli provarono una sensazione di rinascita. Era come una liberazione, come fosse stara recisa una corda che li legava a qualcosa che non era parte di loro.
Il mattino successivo si alzarono presto e andarono all’aperto, assaporando l’odore degli alberi giovani e quello della pioggia che era caduta di notte. Uno a fianco dell’altro camminarono insieme, i due giovani alti, e la terra era orgogliosa di portarli sopra di sé. Per loro cominciava la vita ed erano pronti a entrare in possesso di questo mondo.”
Pär Lagerkvist, “Il mito dell’umanità” (composto nel 1920 e letto in occasione del conferimento del Nobel per la letteratura, nel 1951)
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Immagine: Julien de Parme, “Giove e Teti”, 1760 circa