Epistolario

Lettere dall’assenza

21.05.2023
Caro K.,
alle prime ore del mondo il sogno naviga ancora come vischio tra le doglie del mattino: un fiume mi gronda dalla nuca. Sono andata a cercare i semi che hai sotterrato ad ovest, mi hai detto che le mani non avrebbero fatto rumore, che le vanghe non sono mani, mi hai detto di operare con un taglierino nella terra: ma ho spalancato il vuoto: non c’era nulla.
La sparizione dei tuoi occhi si fa tormenta, ad ogni istante si specchia nelle cose, e non c’è trasparenza nel passato, è tutto questo presente ancorato al suolo, che dice un dicembre mancato, la mia infanzia macinata dalle bocche, quei piccoli dentini che mi mostravi per parlare: ma le parole non sono affilate, K., la mia voce si è spenta. L’inchiostro a pozzanghera mi genera l’orrore di un mare nel suo contrario, caderci come pece nella pece, questo nero che sono, quel nero che non sei mai stato.
Mi dicono di aspettare, dicono che ho nascosto una voce per allarmismo, dicono che per i cuccioli gli allarmi sono più sicuri dei luoghi sicuri, e io non posso rassicurarti, K., le falangi stentano a muoversi: non c’è più carta ma un canto ossessivo di cornacchie – e le senti, K., le senti dimenarsi nella testa, lo senti questo errore che hai lasciato, un testimone a testimone del terrore.
Ho ricevuto la tua ultima domanda all’interno di un guscio vuoto, ho aperto la corazza, hanno seppellito la tua tartaruga divorata da un cane, hanno finto di non vedere, ma io li ho visti, K., li ho visti liberare l’animale per azzannare, incitato a divorare le ossessioni: in ordine una zampa, la piccola coda e la sua testa, li ho visti liberare l’animale e dire andiamo, un esperimento compiuto, la sottrazione di un nome. Il guscio ora è solo un guscio.
Siamo caduti nell’epoca sbagliata, innati e mai nati, quando a sera ci siamo distesi per un dettaglio, dimesso il corpo in una tana – quanti scheletrini siamo, K., quanto siamo stati. Sono sparita perché tu potessi tornare. Ho fatto della miseria quello che mi hai chiesto: oceinificare anche il deserto, ma il deserto è un compromesso, è questo stare accovacciata sulla fronte di una casa senza tetto: piovo a dirotto, non faccio dimora, abitata da un corpo che urla ogni frammento, – e loro placano, uccidono il frinire che dilaga.
Vociferano nei corridoi che avverrà presto: uscirò da questo luogo con il plico delle misure, ti manderò l’ammasso delle loro parole, non mi manderai niente.
Uscirò presto, l’hanno detto, lo ripetono ogni giorno.
Prima di andartene mi hai piantato un binocolo capovolto al posto del cervello, ogni immagine indistinta si è sottratta dalla nebbia, e ora vedo, K., vedo gli organelli di cui parlavi, la partecipazione dell’ugola e degli interni, quelle interiora che dicevi: non beccare, dicevi diventa la tua lingua, fornifica un linguaggio, dicevi, non credere a chi dice che è scomparso.
Ma cosa diventa una lingua se non ha papille?
Dalla finestra sbarrata vedo i maiali appesi, le ragazzine corrono a festa per rosicchiarli, e quanta fame hanno, K., e strillano i maiali, strillano le ragazzine, strillano i crocifissi che portano al posto delle mani, quando pregano pagane che il filo si spezzi, che tutta quella carne si accasci al suolo, non attendono che le carcasse.
Dalla finestra sbarrata vedo una chiesa, una buca, un salice, i selvatici con poche zampe, vedo lo spavento negli occhi della terra, vedo una piccola crepa, sento la frana in lontananza. Tra poco esonderà il sommerso, questo dono che mi hai fatto: quanto hai riso K., quante pupille hai speso per andare.
Hai comprato la loro indifferenza, il loro plesso già bendato: liberarsi significa tacere.
Stagna il silenzio in una stanza, dalla porta posso vederne la forma: ma il silenzio non ha forma, si sforma nel suo peso, il silenzio ha questo piombo azzurro stanco, lo confondono con l’acqua che beviamo a litri, che sputiamo a litri, il gettito che ci getta faccia al muro. Dicono sia cura, e l’hai scampata.
Non credo uscirò mai più da qui: dico presto per stordirmi, ma questo sempre è già stato inoculato nelle vene: perché ho un posto, qui, K., mi è stato assegnato un numerino ed è un per sempre. Tu abiti un luogo, io abito una metafora.
Il grido dei maiali non è appeso: è la mia voce, una mancata sordina all’esistenza.
Tua S.
Mariasole Ariot
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In evidenza: Foto di Tatsuo Suzuki

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