Per noi ragazzi la guerra diventò una gran festa. Una vera sagra di uomini nuvoli e cavalli; un arrivo miracoloso delle carrozze dei Re, un’attesa taciturna di pleniluni, un correre di drammatiche ferie.
I cortili chiusi furono aperti da quelle maree d’uomini e anche le scuole staccarono le lavagne per lasciarci seguire con beata allegria i lunghi cortei d’irredenti, con bandiere illuminate come le domeniche. E mentre la città si accendeva nei traffici con la sonante passione del rame e dell’argento, noi si cominciò a salire gli alberi dei viali, schiamazzando come uccelli selvatici davanti ai bersaglieri.
In quella libertà il coraggio ci spuntò dalle dita come le prime penne. D’allora in poi il disordine delle retrovie doveva dar sommossa alla nostra immaginazione puerile, e altrettanti allarmi e inquietudini alle famiglie. Le donne nelle cucine casalinghe eran spesso in apprensioni per le nostre ire da gatti. Si batteva ombrelloni sui profughi sloveni che mostravano i denti nei ripari delle chiese. Si dava inizio a certi putiferi che trattenevano perfino le colonne di salmerie, allontanando poi lo scompiglio nelle vie vicine. Di seguito, anche nei mesi e negli anni che vennero dopo, il nostro gettar manciate di cartucce vive nei fuochi della periferia, faceva accorrer la gente come fossero ammutinati dei battaglioni nei paraggi, mentre noi fuggivamo tra le rogge i giardini e le muraglie, sempre inseguiti dai cori ammonitori dei rioni. Come pure i razzi che infiammarono il cielo d’una fin d’estate, che parevano segnali all’Austria spinti alle stelle; ed era balistite raccolta con tanta ansietà sulle campagne fumanti di Sant’Osvaldo, sparito due giorni prima nelle nuvole delle esplosioni. Ma quei razzi ci fecero inseguire per le vie dai militari di tutte le armi, e noi dileguati come passerini nelle vegetazioni dei viali, andavamo a gocciolare la nostra paura su quelle larghe foglie.
Neppure le scope giallastre delle nonne, i morsi e i calci lucenti dei muli, ci facevano desistere dalle fitte sassaiole sanguinanti nei borghi limitrofi, dalle gaie ruberie sotto le carrette rovesciate, tanta era la rosea rabbia che ci accordava quel tempo di frastuoni. Solo a sera inoltrata, dopo aver passato la giornata negli accampamenti, o aver seguito la marcia dei bestiami, rientravamo pian piano nelle nostre abitazioni, smunti, sfangati e puzzolenti come le fanterie; così che i parenti ci inseguivano per le stanze con legna da ardere in mano, piangendosi in avvenire zingari o soldatacci da rappresaglia.
E avevano ragione, ma erano state quelle moltitudini improvvise, quelle mitraglie come angeli in volo da un capo all’altro della città, quelle offensive che si delineavano tremolanti sui nostri vetri, a renderci tanto. Quella guerra insomma, che sollevandoci le palpebre ci aveva levato la velina dei nostri sogni puerili. Nessuna meraviglia dunque, se eccitati dal viavai di ruote, fra le truppe le vie e le torri, si provasse anche noi a uscir dalla città in punta di piedi. Ci aveva tenuti sempre perplessi quel camminar d’uomini, stampato sulle strade d’estate e d’inverno.
E un giorno d’agosto si provò a fare alcuni passi verso le campagne aperte. Con buon estro si provava a seguire le gravi piogge bianche che da lontano facevano la nostra stessa strada. Un vento provvidenziale ci riparava alla vista, spingendo le nebbie dei soldati che alzavano i piedi sulle strade della pianura. Eravamo già inquieti non trovando acqua che ci dissetasse. Il Torre infatti non ne aveva un rivolo sulle ghiaie disseccate, e noi fino a sera, coi cespugli giunti al collo, si vagò nelle campagne, portandosi indosso le pupille dilatate di quella fuga. Stando le campagne vedevamo i reggimenti che si avvicinavano curvamente a certe colline basse, dove là facevano la guerra.
Allora pungendosi le labbra nelle acacie, e singhiozzando di paura, ci sbandammo verso le strade provinciali, finendo a mescolarci alle divisioni fradice e affrante di sole. Con le gambe inumidite dalle orine animali, i polmoni impolverati, si rientrò nella città, aggrappandoci subito e teneramente alle braccia delle madri. Esse, poggiate agli alberi, ci avevano aspettati piangendo, presaghe forse che non sarebbe stato vano il richiamo dell’angelo che vigilava la provincia ad ali aperte sulla punta del castello.