Non solo il linguaggio ma le parole tutte, per uniche che ci appaiano, per sole che vadano e per inattesa che sia la loro comparsa, alludono a una parola perduta, come si sente e si sa all’improvviso con angoscia a volte, e in una sorta di albeggiare che palpitando la annuncia da un momento all’altro. E la si sente anche pulsare nel fondo della respirazione stessa, del cuore che la custodisce, garanzia di ciò che la speranza non riesce a immaginare. E nella stessa gola, in atto di sbarrare íl passo con la sua presenza alla parola in procinto di uscirne. Quella porta che l’alba chiude nel momento in cui si apre. L’amore che non arriva mai, che viene meno sul filo dell’aurora, l’inafferrabile che si separa da quelli che si accingono a morire o stanno già morendo, e che lottano – tormento dell’agonia – per lasciarla qui e diffonderla quando non gli è più possibile farlo. La parola che se ne va con la morte violenta, e quella che sentiamo che la precede come guida, la guida di quelli che, alfine, possono morire.
Perduta la parola unica, segreto dell’amore divino-umano. E non si riferiranno per caso ad essa quelle parole privilegiate a stento udibili come mormorio di colomba: Direte che mi sono perduta, / Che, andando innamorata, / Mi persi a bella posta e fui trovata?
LA PAROLA CHE SI CUSTODISCE
La parola che un essere umano custodisce come se fosse fatta della sua stessa sostanza, quantunque egli stesso l’abbia un giorno appresa o formata. Quella che non si dice perché il dirla significherebbe anche contraddirla col darla come nuova o coll’enunciarla come se potesse accadere; la parola che non può trasformarsi in passato e per la quale non si conta sul futuro, quella che è unita con l’essere.
E che si presenta, e perfino si vede, come profetizzata in alcune creature non umane, in alcuni animali che sembrano portare con sé una parola che sono sul punto di lasciar intendere nel momento in cui muoiono. E anche nella quiete ineguagliata delle bestie che guardano il sole come se fossero i suoi guardiani, vedi le immagini che l’arte ha immortalato nel viale del tempio di Delo.
E nel firmamento, alcune costellazioni o astri sembrano solo custodire qualche parola e vegliare per lei, con lei, sull’immensità inconcepibile degli spazi interstellari, i vuoti e la cavità dell’universo, vedette del Verbo.
Maria Zambrano, da “Chiari del bosco”, 1977
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Nell’immagine: Giorgio Milani, “Una rosa sola è tutte le rose”