Pensieri

In diretta dal braccio della morte

11.07.2023
In bilico tra la vita e la morte
“Affinché possa esistere una corrispondenza, la pena di morte dovrebbe punire un criminale che avesse avvertito la propria vittima della data in cui le avrebbe inflitto un’orribile fine e che, a partire da quel momento, avesse relegato la stessa alla propria mercé per mesi. Non ci si imbatte in un mostro simile nella vita privata.”
ALBERT CAMUS
“In cella!’
L’ultima ora d’aria del giorno viene finalmente chiamata. “Condannati! Quarto, quinto e sesto raggio – IN CORTILE!”, barrisce il corpulento secondino dall’accento rurale tanto estraneo all’orecchio urbano.
Una dopo l’altra, le serrature delle celle vengono aperte per la gita quotidiana da cella a gabbia. Ogni uomo viene perquisito da guardie armate di manganello e quindi passato al metal detector.
Non appena i detenuti sono rinchiusi nella gabbia, il cielo di mezza estate comincia a brontolare, scure nubi si addensano, gravide di elettricità e di pioggia. Un’occhialuta camicia bianca alza il suo pallido viso verso il cielo, osservando attentamente quel prodigio della natura che si avvicina veloce. I brontolii si fanno più forti mentre gocce di pioggia navigano verso terra, schizzando su acciaio, mattoni e umani.
“In cella!”, urla la camicia bianca, suscitando mormorii di risentimento tra gli uomini.
“In cella?! Merda, accidenti, siamo appena usciti!”
Più che ricorrere alle minacce, le guardie decidono di adottare un atteggiamento persuasivo: “Andiamo, gente — in cella, in cella. Lo sapete che non possiamo lasciarvi qui fuori con i tuoni e i fulmini”.
“Oh, e perché no? Non avrete mica paura che restiamo fulminati?”, chiede un prigioniero.
“Non è una stronzata?”, aggiunge un altro. “Mi sa che hanno paura che se prendiamo la scossa, perderanno lavoro e salario!”
Alcuni sghignazzano e la fila da gabbia a cella si compatta.
Sebbene solitamente sia di due ore, l’aria di oggi dura sì e no dieci minuti, per paura che quelli condannati a morte dallo Stato possano, invece, perire per colpa della fatalità.
Per circa 2400 persone rinchiuse in carceri statali e federali, la vita è diversa da qualsiasi altro istituto. Sono i condannati d’America, contrassegnati da uno stigma ben peggiore di semplice “prigioniero”. Sono gli abitanti del braccio della morte d’America: uomini e donne che camminano sul filo del rasoio tra quella che è una vita a metà e la morte certa, in 34 Stati o territori sotto la giurisdizione degli Stati Uniti. Il braccio della morte più grande si trova in Texas (324 persone, di cui 120 afroamericani, 144 bianchi, 52 ispanici, 4 nativi americani e 4 asiatico-americani); quelli più piccoli sono in Connecticut (2 bianchi), New Mexico (un nativo americano e un bianco) e Wyoming (2 bianchi).
Nel braccio della morte troverete un concentrato di neri più che in qualsiasi altro ambiente. Gli afroamericani, appena l’11 per cento della popolazione nazionale, costituiscono circa il 40 per cento della popolazione del braccio della morte. Là troverete anche me.
È dal più grande braccio della morte della Pennsylvania nell’Istituto correzionale di Stato di Huntingdon, situato in una zona rurale nel centro-sud della Pennsylvania, che vi scrivo. Non sono che una delle 123 persone in attesa di morte. Vivo in questo arido dominio della morte dall’estate del 1983. Da diversi anni ormai sono assegnato al regime di CD (custodia disciplinare) per aver osato osservare la mia fede, gli insegnamenti di John Africa, e, in particolare, per essermi rifiutato di tagliare i capelli. Per questo motivo mi vengono negate le telefonate della mia famiglia, e ogni tanto vengo incatenato perché mi rifiuto di trasgredire al mio credo.
Qui la vita oscilla tra il banale e il bizzarro.
A differenza degli altri prigionieri, i detenuti del braccio della morte non “scontano una pena”. Alla fine del tunnel non splende la libertà. Al contrario, la fine del tunnel porta all’estinzione. Pertanto, per molti qui, non c’è speranza.
Come in qualsiasi massiccia organizzazione semi-militare, la realtà del braccio è disciplinata da gerarchie e regolamenti. Come in qualsiasi regime che sia imposto a degli esseri umani, vi si oppone una resistenza, ma in misura molto minore di quanto si potrebbe immaginare. Per la gran parte, i prigionieri del braccio della morte sono quelli che tra tutti i detenuti si comportano meglio e creano meno problemi. È anche vero, tuttavia, che abbiamo poche opportunità di comportarci altrimenti, dal momento che in molte unità vige il sistema “22+2”: ovvero 22 ore chiusi in cella e 2 ore di ricreazione fuori della cella. La ricreazione all’aperto ha luogo in una gabbia, circondata da un doppio giro di filo spinato tagliente come il rasoio: il “canile”.
Tutti i bracci della morte hanno in comune un obiettivo centrale: “immagazzinare umani” in “un mondo austero in cui i prigionieri condannati sono trattati come corpi mantenuti in vita per essere uccisi”. Il regime del braccio della morte della Pennsylvania è tra i più restrittivi d’America, tanto da far concorrenza all’ignobile unità della morte di San Quintino per intensità e durata della restrizione. Qualche Stato consente quattro, sei o anche otto ore fuori dalla cella, un’occupazione all’interno del carcere, o persino l’accesso a programmi educativi. Non nello Stato di Keystone.
Qui si ha poca o nessuna vita psicologica. Qui molti fuggono dall’onnipresente spettro della morte soltanto attraverso diversivi comuni come la televisione, la radio o lo sport. Sono permessi i televisori, ma non le macchine da scrivere: si possono impiegare liberamente le proprie energie nell’intrattenimento, ma uno strumento essenziale per la liberazione tramite procedure giudiziarie è considerato una minaccia alla sicurezza.
Un recluso, più interessato alla propria vita che al proprio intrattenimento, discusse animatamente con l’amministrazione carceraria per ottenere il permesso di acquistare una macchina da scrivere a non impatto, non metallica, a pile. Com’era prevedibile, il permesso gli fu negato per motivi di sicurezza. “Be’, come considerereste un pezzo di vetro di 30 centimetri?”, chiese il prigioniero. “Non sarebbe una minaccia alla sicurezza?”
“E dove pensi di riuscire a procurartelo?”, domandò il funzionario del carcere.
“Dal mio televisore!”
Richiesta per macchina da scrivere negata.
La tivù è più che un potente diversivo da un terribile destino. È una mazza psicologica usata per minacciare coloro che osano resistere all’isolamento disumanizzante della vita nel braccio. Essere giudicato colpevole di un’infrazione istituzionale significa che si deve rinunciare alla tivù.
Dopo mesi o anni di visite prive di contatto fisico, poche telefonate, e sempre più rare possibilità di comunicare con la propria famiglia o con l’esterno, molti reclusi usano la tivù come un cordone ombelicale, un legame psicologico con il mondo che hanno perduto. Essi vi dipendono, come le persone sole accendono la tivù illudendosi di avere un po’ di compagnia, e si sentono atterrite al solo pensiero di separarsene. Per molti, la perdita della tivù è un prezzo troppo alto da pagare per qualsiasi tipo di resistenza.
Mumia Abu-Jamal, da “In diretta dal braccio della morte. Scritti dal carcere”, 1995

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