Affabulazioni

Quel che ho visto e udito a Roma

01.08.2023
A Roma ho visto che il Tevere non è bello, ma trascurato nelle banchine, da dove spuntano rive a cui non c’è chi metta mano. Nessuno usa le navi da carico brunite dalla ruggine, nemmeno le barche. Arbusti ed erba alta sono infangati, e sulle balaustre solitarie dormono immobili gli operai nella calura di mezzogiorno. Fino ad ora non si è mai girato nessuno. Nessuno è mai caduto giù. Dormono dove i platani dispiegano loro un’ombra, e si calcano il cielo sulla testa. Bella è però l’acqua del fiume, verde argilla o biondo – a seconda di come la luce lo irradia. Bisogna camminare lungo il Tevere e non guardarlo dai ponti, pensati come strade che portano all’isola. La Tiberina è abitata dai Noantri – noi altri. È da intendere così, che essa, isola dei malati e dei morti fin dall’antichità, vuole essere abitata anche da noi altri, percorsa anche da noi, perché è a sua volta una nave e naviga molto lentamente nell’acqua con tutti i carichi, in un fiume che non la sente un peso.
A Roma ho visto che la basilica di San Pietro sembra più piccola delle sue reali dimensioni e tuttavia è troppo grande. Si dice che Dio abbia voluto che la sua chiesa sorgesse sulla pietra e fosse solida. Ora si leva sopra la tomba del suo santo, che stanno riportando alla luce. Così è il santo stesso a metterla in pericolo e a indebolirla. Ciononostante le grandi solennità si svolgono ancora chiassosamente, con balletti in porpora sotto baldacchini, e nelle nicchie l’oro sostituisce la cera. “Chiesa granne divozzione poca”. Sono ancora i poveri, nella loro avvedutezza, a preoccuparsi che la chiesa non crolli, e colui che l’ha fondata ormai fa conto sul passo degli angeli.
A Roma ho visto che molte case assomigliano al Palazzo Cenci, dove la sventurata Beatrice visse prima della sua esecuzione. I prezzi sono alti e le tracce della barbarie dovunque. Sulle terrazze i mastelli con gli oleandri marciscono cedendo ai fiori bianchi e rossi; i quali vorrebbero volare via, giacché non riescono a tener testa all’odore di sporcizia e decomposizione che rende il passato più vivo dei monumenti.
A Roma ho visto nel ghetto che non bisogna lodare il giorno prima della sera. Ma nel giorno dell’espiazione a ciascuno sarà perdonato in anticipo per un anno. In una trattoria vicino alla sinagoga la tavola è apparecchiata, e i pesciolini rossastri del Mediterraneo sono serviti con uva passa e pinoli. I vecchi si ricordano degli amici che furono pagati a peso d’oro; quando furono riscattati, i camion partirono lo stesso, e loro non tornarono più. Ma i nipoti, due ragazzine in gonne rosso acceso e un bambino grasso e biondo, ballano in mezzo ai tavoli e non staccano lo sguardo dai suonatori. “Suonate ancora!” grida il bambino grasso e sventola il berretto. Sua nonna accenna un sorriso, e quello che suona il violino diventa molto pallido e salta una battuta.
Ho visto a Campo de’ Fiori che Giordano Bruno continua a essere bruciato. Ogni sabato, quando smantellano le bancarelle intorno a lui e restano solo le fioraie, quando la puzza di pesce, cloro e frutta marcita va disperdendosi sulla piazza, gli uomini raccolgono sotto i suoi occhi i rifiuti che sono rimasti dopo che di tutto è stato fatto mercato, e danno fuoco al mucchio. Di nuovo si leva il fumo, e le fiamme mulinano nell’aria. Una donna grida, e gli altri gridano con lei. Dato che nella luce forte le fiamme sono incolori, non si vede dove arrivano e dove cercano di colpire. Ma l’uomo sul basamento lo sa e perciò non ritratta.
Ingeborg Bachmann, da “Quel che ho visto e udito a Roma”, 2002
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Street art di Hogre

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