“Tu non sei mai stato un ragazzo ordinario. Simulavi la spensieratezza. Mimavi l’allegria. Quasi tutti i tuoi amici non se ne rendevano conto: avrebbero voluto trascinarti nella frenesia senza tempo da cui loro stessi si lasciavano consumare. Forse soltanto Giorgio Coccia, imprevedibilmente, intuiva la battaglia interiore che sostenevi ogni giorno per liberarti da un macigno nascosto. Il teppistello, così sfrontato, con te pareva indifeso, non sapeva come trattarti. Si limitava a prenderti in giro, quasi volesse svegliarti dall’incantesimo. Quando esibiva la croce uncinata, lo smontavi con un sorriso. Vincevi sempre di rimessa, col tocco fatato, tre a zero e palla al centro.
Fra noi l’intesa fu spontanea. Bastava un dettaglio per coinvolgerti: l’elmetto bucato dentro la grotta di Corviale; le manette ai polsi di Ravil, nel penitenziario sul Lago Bianco; i polacchi a Cassino; le cattedrali annerite di Dresda.
La rabbia di tuo nonno, nata quel giorno alle Fosse Ardeatine, a distanza di tanti anni alimentava in te l’ansia di conoscenza. Cosa avrebbe dovuto fare? Niente, era un bambino! Ma i colpi provenienti dalla cava, costanti, secchi, ultimativi, e le grida conseguenti, rauche, disarticolate, estreme, giunsero fino a lui. Gli restarono dentro. Come semi fecondi passarono a tuo padre che però, sarà stato il caso, l’incuria o la cattiva volontà, vallo a sapere, non ascoltò quelli, né decifrò queste.
Conservo la tua domanda, alla medesima stregua di un amuleto, davanti alla casa della vecchia partigiana, a Ronchi, nei pressi dell’aeroporto di Forlì. La palazzina in cui abita è una delle tante ai margini del piazzale erboso, spelacchiato, con vecchie giostre in disuso. Appena arrivo, vedo due signore che si stanno facendo compagnia sul balcone: una di loro, dico a me stesso, dev’essere lei.
Parcheggio sotto casa. Il tempo di premere sul citofono al cancelletto e sento la sua voce cordiale che m’invita a salire. La cadenza romagnola accelera il battito del cuore. Le biciclette appoggiate lungo i muri del cortile assomigliano a scheletrini. L’albero di fico, in giardino, richiama lontanissime estati trascorse a giocare nell’orto. Alcune immagini passano davanti a me come schegge di saldatrice elettrica: la moto Guzzi rossa dal sellone triangolare, sulle molle d’acciaio; i pensionati nel campo di bocce, coi volti sfregiati dagli anni.
La primavera continua a presentare un fantastico poker d’assi: erbe, cieli, piante e luci. Non c’è speranza, ma quanta forza nella sua coda di lucertola spezzata; quanta potenza di fuoco!
Faccio gli scalini a due a due. Sento di essere uno spartitore di traffico memoriale: dirigo il movimento, inquadro le scene, scrivo le didascalie. Ricordi quando invitammo Giulia Spizzichino a raccontarci la deportazione degli ebrei romani al Portico d’Ottavia?
Il silenzio era formidabile. Anche Matteo Saluzzo e Damiano Frinolli, di solito scalmanati, stavano zitti. L’anziana signora, seduta al posto mio, non seppe trattenere l’emozione. Tu, il piú timido, il meno appariscente, ti alzasti in piedi e dall’ultimo banco attraversasti l’aula diretto alla cattedra. Ti guardammo stupiti senza capire quali fossero le tue intenzioni. Volevi consegnare alla preziosa testimone un fazzolettino di carta perché si asciugasse le lacrime. In quel momento compresi che eri speciale.
Antonia Laghi, nome di battaglia Jonina, claudicante ma sempre indomita, mi accoglie con il fiore dell’antica bellezza celato dietro gli occhiali. ‘Sebben che siamo donne, paura non abbiamo’. Una camera spoglia, qualche libro, la cyclette, il tavolino. Non si è mai sposata, nonostante gli amori. Ha conservato la propria giovinezza come una nave in bottiglia. Sai perché sono venuto a trovarla, vero?
È la stessa ragione che mi spinse da Venezia ad Auschwitz, seguendo le tracce di mia madre, fuggita dal treno alla stazione ferroviaria di Udine; a Varsavia, sotto le targhe di pietra del ghetto raso al suolo, fra Chopin e gli Stukas; a Volgograd, nel punto in cui la belva nazista morì con l’osso in bocca e le cartilagini strappate; nei bunker sforacchiati di Omaha Beach, che i ragazzi adesso usano per darsi i primi baci; sulle rive del Don, a bagnarmi le mani nel fiume dove Mario Rigoni Stern vide la Medusa ma non restò impietrito.”