Sulla soglia di questo libro ci sono due uomini. Uno è realmente vissuto duemilacinquecento anni fa ad Atene, ma è diventato, anche nell’opera in cui continuiamo a leggere le sue parole, il personaggio di mille finzioni. L’altro è il protagonista di un romanzo ambientato nel ghetto di Lódz, nel 1943, durante la grande mattanza hitleriana.
Il primo è greco. Il secondo è ebreo. Il primo si chiama Socrate. Il secondo è detto Jakob, Jakob il bugiardo.
Cos’hanno in comune questi due uomini? Apparentemente nulla.
Socrate è il padre della filosofia occidentale, il nostro «protofilosofo». Sterminate biblioteche di libri sono state scritte su di lui, che pure non aveva mai scritto una riga. In nome di Socrate sono sorte correnti di pensiero, vocazioni filosofiche e artistiche, discipline spirituali, esistenze straordinarie di uomini comuni. La morte di Socrate è stata rappresentata su marmo, bronzo, tela e legno. La vita di Socrate è stata messa in versi sul palcoscenico dei teatri, musicata dai compositori, proiettata sugli schermi del cinema e della Tv. Fino a qualche generazione fa, non c’era uomo colto, nel quadrante europeo del mondo, che non potesse dire con Nietzsche, «Socrate mi è talmente vicino, che devo quasi sempre combattere contro di lui».
Jakob, al contrario, è un illustre signor nessuno. Lo incontriamo in una misera città della Polonia occupata dai tedeschi, che si barcamena per sopravvivere, come tanti altri. Forse troppi, per il cibo scarso e scadente che passano i sorveglianti del ghetto. Sappiamo che nel suo locale, prima dell’arrivo dei nazisti, Jakob faceva degli ottimi sofficini di patate, del buon gelato e che serviva acquavite senza licenza. Sappiamo che, come tutti quegli uomini che si sogliono chiamare onesti, reali o immaginari che siano, non avrebbe mai deliberatamente tatto del male al suo prossimo. Neanche — il forse è d’obbligo — agli assassini di sua moglie, che sono i suoi carcerieri. Ma non serve dire oltre, il romanzo è in commercio e sopra ci hanno girato anche un film.
E allora? Cos’hanno in comune Socrate e Jakob, oltre al fatto, purtroppo condiviso da intere moltitudini d’uomini, sin dall’immemoriale notte dei tempi, di esser stati uccisi dai loro simili? Cos’hanno in comune, quindi, oltre alla volontà di quei carnefici che un giorno relegarono entrambi nel ruolo delle vittime?
Socrate dice la verità, Jakob dice la bugia.
Al pubblico del tribunale di Atene, che lo sta processando per empietà e per aver tentato di corrompere i giovani, Socrate si rivolge così: «Ateniesi, io vi dirò la verità che vi aiuterà a diventare uomini migliori!».
Ai prigionieri del ghetto di Lódz, che credono che lui possieda una radio in grado di annunciare l’arrivo dei liberatori, Jakob vorrebbe dichiarare (e in qualche modo anche cerca di farlo): «Fratelli, io vi dirò la bugia che vi aiuterà a restare uomini!».
Verità e bugia sono qui accomunate da un’identica forma di opposizione. La funzione critica della verità, che Socrate insegna al pensiero occidentale e, quindi, alla cultura che esso alimenta, assomiglia, in questo, alla funzione creativa della bugia, che Jakob mette all’opera per salvare i suoi compagni dallo sconforto e dalla disperazione. Qui la bugia, che altrimenti non ha nulla di lodevole e di giustificabile, diviene la strategia di chi ha tutto da perdere e niente vuol guadagnare, tranne la dignità che gli spetta.
Ci sono, in Socrate e in Jakob, quella meravigliosa facoltà di opporsi, quel portentoso coraggio della verità e della menzogna – menzogna nel senso in cui si è detto –, che li spinge a stare «uno contro tutti», che li spinge a sfidare e a ribaltare, pur restandone alla fine vittime, il più odioso schema della violenza, quello del potere, quello del «tutti contro uno».
Socrate e Jakob usano la verità e la bugia per «dire di no», per dire altrimenti, per dire comunque, per protestare, per ribellarsi fino alle estreme conseguenze. Sono uomini in rivolta, sono individui.
La verità critica nega il mondo del «così com’è», della consuetudine dei saperi e dei poteri, la bugia critica inventa il mondo «così come dovrebbe essere», ma intanto anch’essa nega alla radice il mondo che c’è e il suo dominio. Dalla prima nasce la filosofia come tradizione critica, dalla seconda nasce la grande letteratura come avventura nei mondi possibili, come viaggio in utopia. (…)
Riflettere sulla menzogna significa interrogarsi sull’unica verità di cui l’uomo può disporre con certezza, quella che egli crede di possedere e, quindi, può decidere di dire o non dire. La menzogna si confronta, per definizione, con il concetto di verità e con quello di libertà, con i campi del sapere e con quelli del potere.
Tuttavia, il problema della bugia non è riducibile alle questioni della moralità, a un valore regolativo della politica o alle complesse casistiche del diritto. Con la menzogna, attraverso il frastagliato arcipelago dell’inganno, del malinteso e della finzione, ma anche della malafede, dell’ipocrisia e della simulazione, mettiamo in scena una specie di teatro. Per mentire, infatti, anche solo a se stessi, bisogna essere almeno in due.
Il paradosso della menzogna consiste nella sua implicita domanda di verità, nella vertigine del suo dissenso clandestino, che la logica ha chiamato antinomìa, e, insieme, nella sua capacità di farci tornare, ogni volta, all’imbarazzante dualità dell’inizio, a quel dialogo originario che precede ogni monologo.
Ma la filosofia della bugia e la storia della sincerità, che nelle pagine di questo libro appaiono intimamente intrecciate, non ci raccontano solo di quella menzogna che riguarda il mondo delle cose, bensì narrano anche di quella bugia che ha per oggetto noi stessi, nelle forme della doppiezza, del mascheramento e dell’autoinganno. Quella bugia che si rispecchia, quindi, nelle pratiche di verità della confessione, dell’esame di coscienza e del genere letterario del saggio, che nasce, con Montaigne, come messa alla prova di sé.
Allora, che senso ha essere sinceri? Cosa significa essere veraci? Che differenza c’è fra il bugiardo e l’impostore, fra il falsario e il plagiario? Bisogna dire tutta la verità che si conosce o essere veridici in tutto ciò che si dice? Sincerità e autenticità, mendacità e veridicità accompagnano la nascita filosofica del soggetto, ne incrociano la genealogia, ne documentano trionfi e catastrofi. Sincerità e bugia vanno a comporre le pratiche e le strategie dell’individuo moderno, inaugurano e sorreggono quella particolare “forma di vita” che si autodetermina come «colui che diventa ciò che non è».
La bugia come questione morale incrocia questa storia. A partire dagli archetipi della tradizione occidentale – la letteratura greca e quella biblica — la menzogna si identifica con la figura del voler avere di più. Alla scuola della bugia la tradizione occidentale impara, cioè, la nozione di volontà.
È contro questo voler avere di più, d’altra parte, che nasce l’impresa critica della filosofia. La verità che scioglie il nodo del volere è, per tutta la grande stagione della filosofia classica, il criterio per costruire vite secondo l’essere, ossia vite che non vogliono di più, ma sono. Questo valore critico della verità diviene, nella tarda antichità, l’occasione per la nascita del genere letterario e della pratica della confessione. La confessione non ha più per obiettivo la costruzione dell’esteriorità della vita, ma persegue l’edificazione dell’interiorità dell’io. Questa interiorità si oppone al mondo così come la verità del filosofo classico si opponeva alla vita orientata secondo il voler avere di più della menzogna.
Questa opposizione diviene, di volta in volta, opposizione dell’io che vive la sua biografia, del soggetto che conosce e dell’individuo che agisce. La storia della filosofia dell’età moderna e contemporanea può essere riscritta sorvegliando le variazioni delle nozioni di autenticità e di sincerità e la gamma dei loro reciproci rapporti. L’individuo è una menzogna che dice sempre la verità, dirà Cocteau.
Ma la bugia non è solo il voler avere di più. La bugia è anche una poderosa tecnica di immedesimazione. Il bugiardo mentendo si immedesima nell’altro a cui mente. Da questa tecnica d’immedesimazione nascono il teatro e la letteratura come quei campi dell’esperienza umana in cui ad ogni se stesso è consentito esser altro, ossia come sapere dell’eccezione, come sospensione esistenziale del principio di non contraddizione della filosofia e della logica ordinaria. Così la letteratura come menzogna diviene un antidoto contro il voler avere di più della volgare bugia d’acquisizione. Là dove la menzogna vuole sempre di più e non è mai soddisfatta di ciò che ottiene col suo volere, le finzioni del teatro e della letteratura sono bugia gratuita, gioia della dissipazione e dello spreco. Uno spreco, tuttavia, che coincide con la vita stessa.
Andrea Tagliapietra, da “Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale”, 2001
Il ghetto di Lódz in una foto di Rode & Kiss, marzo 1940
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Immagine in evidenza: Jacques-Louis David, “La morte di Socrate”, 1787