“All’orizzonte il cielo era infuocato. La sfera del sole che sorgeva faceva sembrare il mare un’enorme estensione di metallo fuso. Viste contro questo accecante mare di fiamme, le palme dell’isola di Tinian si stagliavano nere, come carbonizzate. Anche gli uomini attorno al potente quadrimotore B-29, sembravano nere ombre d’averno. L’aereo era come un mostro alato della preistoria, che portava nel ventre una bomba di specie mai vista. I suoi fasci di nervi erano i cavi di comando. I suoi motori gli davano la forza di migliaia di cavalli. Invece di un cervello, dozzine di strumenti pensavano per il mostro-macchina. Erano stati inventati da uomini e venivano maneggiati da uomini. L’equipaggio dell’aereo era pronto. Gli aviatori stavano in riga davanti ai generali Spaatz e Groves, che li guardarono l’uno dopo l’altro e si rivolsero a ciascuno di essi chiamandoli col grado ed il nome. Al colonnello Tibbets, che aveva il comando del B-29, il comandante in capo Spaatz prese la mano, e la tenne stretta”.
“Alle otto e quindici minuti era scesa di altri cento metri, quando altri apparecchi inventati dagli scienziati fecero scattare l’accensione all’interno della bomba: dei neutroni provocarono la disintegrazione di alcuni atomi di un metallo pesante, l’uranio 235. E questa disintegrazione si ripeté in una reazione a catena di sbalorditiva velocità. In un milionesimo di secondo, un nuovo sole si accese nel cielo, in un bagliore bianco, abbagliante. Fu cento volte più incandescente del sole nel firmamento”.
“Sulla via di casa vidi donne, uomini e bambini morti. In qualche punto i morti erano ammucchiati gli uni sugli altri. Ciò che rimaneva della città, bruciava. Io gridavo di paura, ma tu non potevi ancora parlare. Ed ora dimmi….. ti ricordi dei morti sui quali dovevo salire per poter passare? No? Vedi! E ti ricordi del cane imprigionato nell’asfalto liquefatto, in mezzo alla strada? Guaiva così terribilmente! E ti ricordi che passammo vicino a una donna che tendeva due moncherini carbonizzati? Era sdraiata sulla schiena… il suo viso era un’unica ferita, senza più occhi, né labbra, né naso. Dallo sgomento caddi a terra con te. Oh, era orribile! non lo dimenticherò mai”.
“Tutti dovrebbero gridare: Mai più un’altra Hiroschima! Soprattutto i giovani devono dirlo con convinzione. Sanno troppo poco di ciò che è successo, perché ne sono tenuti all’oscuro. I padri hanno paura di raccontare ai figli della grande catastrofe, e pensano: chi non conosce il pericolo vive senza preoccupazioni. Ma questo non è giusto. Io affermo invece: chi non conosce il pericolo non lo teme, non lo evita, e quindi più facilmente ne resta vittima”.
Karl Bruckner, da “Sadako will leben!” (Sadako vuole vivere!), 1961 (ripubblicato in Italia nel 1962 col titolo “Il gran sole di Hiroshima”)
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Nell’immagine: “Genbaku no ko no zō”, (“Statua ai bambini colpiti dalla bomba atomica”), il memoriale dedicato a Sadako Sasaki e ai bambini vittime della bomba atomica di Hiroshima