Nell’estate del 1922, i redattori del giornale parigino “L’Intransigeant” posero ai lettori un quesito:
“Viene annunciata dalla scienza l’imminente fine del mondo. La distruzione dei continenti e la morte certa dell’intera popolazione. Voi cosa fareste, prima dell’ultima ora?”
Ci furono risposte tra le più svariate.
Dallo scienziato all’attrice di cabaret, passando per il tennista, il concierge, il curato di campagna, il medico curante e – naturalmente – il becchino.
Un ometto esile, dalle guance scavate e un pallore lunare, che aveva passato gli ultimi 14 anni a letto, a scrivere un libro (poi diventati sei), un po’ per sfida, un po’ per gioco, decise di mandare la sua:
“Credo che la vita ci parrebbe improvvisamente deliziosa se fossimo minacciati dalla morte, come voi prevedete. Pensate, in effetti, a tutti i progetti di viaggi, di amori, di studi che la nostra vita rimanda in continuazione. Appena tutto quello che è soltanto possibile diventerà impossibile, come diverrà bello! Non mancheremo di visitare le nuove sale del Louvre, di gettarci ai piedi di mademoiselle X… di visitare le Indie. Ma il cataclisma non avviene e noi non facciamo niente di tutto ciò, perché ci ritroviamo rigettati nella vita normale, dove la negligenza smussa il desiderio…”
Ecco, non appena superata l’idea di immortalità che in qualche modo aleggia dentro di noi, ci ricordiamo di quante possibilità di esplorazione dell’esistenza ci neghiamo, ogni giorno; quanti incontri, quanta conoscenza, quanta possibilità di vita…
Marcel Proust (di lui si trattava), non visitò mai le nuove sale del Louvre, non si gettò ai piedi di mademoiselle X (né a quelli di nessun’altra, a dire la verità), non esplorò universi sconosciuti, non trovò il modo di innamorarsi di quella vita.
Morì qualche mese più tardi, di un banale raffreddore, velocemente tramutatosi in polmonite.
Non fece mai pace con il titolo di quel libro al quale aveva dedicato ogni tempo, sussulto e desiderio: “À la recherche du temps perdu“.
Lo aveva definito “Infelice”, “Ingannevole”, “Brutto”.
Ma forse in quel lungo viaggio dalla portata di sei volumi c’era il tentativo di risposta al quesito del giornale.
La ricerca dei perché allo sperpero del tempo che ci viene concesso, che si esaurisce quando meno ce lo aspettiamo, senza nemmeno aver avuto – o esserci concessi – la possibilità di conoscerlo, e di conoscerci fino in fondo.
“Eppure” – concludeva nella sua lettera al giornale – “non dovremmo aver bisogno dell’imminenza del cataclisma per amare oggi più che mai il fatto di essere vivi. Dovrebbe bastarci pensare che siamo essere umani e che la morte potrebbe raggiungerci questa sera stessa.”
Milton Fernàndez (poeta, scrittore, editore)
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Nell’immagine: Tullio Pericoli, “Marcel Proust”, 2000