“Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la piú sovversiva.
Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica. Accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti «dovremmo dire anche farmacisto». Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma. Quando siete le uniche di cui non si pronuncia mai il cognome, se non con un articolo determinativo davanti. Quando si mettono a spiegarvi qualcosa che sapete già perfettamente, quando vi dicono di calmarvi, di farvi una risata, di scopare di piú, di smetterla di spaventare gli uomini con le vostre opinioni, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta.
Questo libro è uno strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. Ha un’ambizione: che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice più nessuno.”
“Se è ovvio che il sessismo riguarda tutti e tutte, è altrettanto evidente che il prezzo piú alto delle sue disuguaglianze lo pagano le donne e le persone LGBTQI+.
All’apice della piramide di potere che chiamiamo patriarcato c’è il maschio eterosessuale in quanto tale.
Ogni maschio eterosessuale che nasca dentro il patriarcato deve essere consapevole di abitare lo scalino più alto di una gerarchia di ingiustizia dove tutti quelli e quelle che stanno sotto di lui hanno meno diritti riconosciuti. Negarlo sarebbe non solo illogico sul piano intellettuale, ma anche scorretto su quello etico. Dire «Ma io cosa c’entro con questo» è infantile e un po’ furbo, perché significa non voler riconoscere la differenza tra il concetto di colpa e quello di responsabilità.
La colpa è un carico morale esclusivamente personale e, a meno che tu non abbia praticato deliberatamente un’ingiustizia o una violenza su qualcuna, ovviamente non è tua. La responsabilità invece è un carico etico collettivo che ci riguarda tutti e tutte, perché le regole che seguiamo ogni giorno reggono la disuguaglianza che viviamo, anche se in misura diversa. La colpa ce l’hai o non ce l’hai. La responsabilità invece te l’assumi se pensi che quelle conseguenze ti riguardino e tu possa fare qualcosa per modificarle in meglio. È in nome della responsabilità, non della colpa, se ogni anno celebriamo la Giornata della memoria delle vittime del nazismo, perché dopo la Shoah dire «Non ho mai messo un ebreo in una camera a gas» non è più sufficiente: abbiamo capito tutti che occorre lottare quotidianamente contro i focolai del razzismo che ancora permangono nella nostra società. Fuori da questa logica di assunzione della responsabilità, affermare «Non sono maschilista» in fondo significa dire che «Le conseguenze del maschilismo non sono un mio problema e non le devo risolvere io».
Il sessismo, come il razzismo, è una cultura aggressiva: pensare che basti viverci dentro passivamente per non averci niente a che fare è un’illusione che nessuno può permettersi di coltivare. Se agli uomini della mia generazione quest’illusione pare ancora possibile, tra i maschi più giovani è sempre più diffusa la consapevolezza di far parte di un sistema di privilegio da cui occorre dissociarsi attivamente. Il merito è delle giovani donne che hanno coltivato una nuova coscienza antisessista e in questi anni hanno trovato il modo per trasmettere ai loro coetanei l’urgenza di un cambiamento congiunto. A volte qualcuno di questi ragazzi mi scrive, senza immaginare che incredibile senso di speranza nel futuro mi diano le sue parole: «Mi chiamo Andrea e la mia più grande fortuna è stata quella di aver conosciuto ed essermi innamorato di una ragazza che sta cercando incessantemente la sua via per cambiare un po’ questo mondo pieno di ingiustizie. Perché ti scrivo questo?
Perché vorrei darle tutto il mio sostegno incondizionato, ma alle volte il senso di colpa di essere nato dalla parte degli oppressori mi fa sentire un incapace. Vorrei chiedere a te, come farò con altre donne che stima e che stimo, come si fa a cambiare il mondo giorno dopo giorno. Mi scuso per il messaggio un po’ retorico, ma è importante per me».
Andrea non dice «Non sono maschilista», dice «Vivo anche io in un sistema maschilista, ma voglio cambiarlo». Se qualcuno si chiedesse che aspetto abbia un femminista, io credo sia fatto così.
C’è un corollario di affermazioni che si accompagna alla convinzione che sin troppi uomini hanno di non essere maschilisti: ciascuna di esse, è quasi inutile specificarlo, è maschilista.”