Odissea
Nikos Kazantzakis, da “Odissea”
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Odissea
“La Morte venne e si coricò al fianco di Odisseo;
stanca per aver vagato tutta notte, le palpebre pesanti,
bramava anche lei distendersi sulla riva col vecchio amico,
sotto l’ombra di un salice, dormire anche lei un poco;
posò lievemente le mani ossute sul petto dell’Arciere
e così abbracciata la valorosa coppia precipitò nel sonno.
Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,
che s’innalzino case sulla terra, e palazzi e regni,
che vi siano giardini fioriti,
e che alla loro ombra passeggino donne gentili e cantino le schiave.
Sogna che sorga il sole, e che la luna illumini,
che giri la ruota del mondo, e che ogni anno porti erbe e fiori,
e frutti d’ogni sorta, e dolci piogge e neve;
e compia un altro giro rinnovando ancora la terra.
Sorride di nascosto la Morte, lo sa bene ch’è un sogno, vento multicolore,
fantasia della sua mente stanca, e tollera incurante che l’incubo la assilli.
Ma pian piano si rianima la vita, la ruota prende slancio;
la terra apre avida le viscere, penetrano pioggia e sole,
infinite uova si schiudono, la terra brulica di vermi,
muovono folti eserciti di uomini, uccelli, fiere, pensieri
e si avventano per divorare la Morte addormentata.
E una coppia di umani rannicchiata nelle grotte delle sue nari accende
e attizza il fuoco, poi si prepara il pranzo,
e al suo forte labbro sospende la culla del neonato.
Sente un solletico sulle labbra, un formicolio alle nari,
si scuote d’improvviso la Morte, così svanisce il sogno;
per un attimo fulmineo ha dormito, per quell’attimo ha sognato la vita.
Nikos Kazantzakis, da “Odissea”
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Joseph Wright of Derby, “Penelope disfa la sua tela alla luce di una candela”, 1783
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La patria mi stava stretta
Ulisse e Nausicaa
“Vivo in un regno millenario. Il cielo
passa sopra le torri come un’acqua
piena di canti. Posso vedere la luna
che avvolge gli uccelli, la pietra
dove qualcuno ha scritto che tutto è vano,
che il filo della tunica svanisce
per non trovarsi più. Tamarindi
c’erano che dalle foglie annunziavano
dolore e musica per le regine
che venivano dall’acqua più profonda.
E c’era la mattina, il mezzogiorno,
i giardini di pietra, il cacto nero.
Conservo ancora in mano un ramo
argentato dalla morte, e una storia
che parla di coloro che furono. Le mura
della città evocano ancora
una nave che a un’altra sponda
fu ancorata dal peso dei miei viaggi
tra ombre, lotofagi, e demoni.
Se tu sapessi, Nausicaa, come è stata
la mia vita da allora: non grata
per chi ha visto i fiori del melograno
sparsi sul proprio letto e nel ricordo,
mentre il cieco cantava e gli offrivano
una sedia di cedro e una favola.
Tu mi portasti nella città, nudo,
soltanto coperto dal mare di sabbia
e da foglie di luce del folto del bosco
per dire la mia gloria, la mia pena.
Io ti seguii credendomi un dio, quindi
sognando la mia isola felice
dove avevo lasciato tre colori
e un patio e una vigna e i miei amici.
Ma la regina non attese la mia nave,
la sognò in fondo alle agognate acque,
e sognò il mio scheletro abbagliato
da mezze luci e pesci e madreperla
dove la sera arriva a un tratto e il legno
non è altro che ponte di un giardino in ombre.
Nel suo sogno mi vidi, re abbattuto
dalla spada che tengo ancora occulta
per il re foraneo. Ho sognato allora
che sarei morto lontano dalla patria,
che non avrei rivisto negli specchi
le strade della mia Itaca né il volo
che propizia il mio arco nella gioia
perfetta dei marosi e delle pietre.
Vivo in un regno millenario, è vero,
un mare di gelsomini mi circonda,
entro nei boschi quando il cielo forma
la mezzanotte, solo e silenzioso
con la mia vita; il destino non mi lascia
lanciare la mia freccia, come vorrei,
dritta al cuore del cinghiale e della luna:
non colpisco il bersaglio e solo posso
pensare a te, Nausicaa. I feaci
non seppero vedere nel racconto
di Demodoco, il cieco, che avevano
nel salone di sandalo il più povero
e il più disincantato dei navigatori.
Io non ascoltai la storia dei miei viaggi,
perché nei tuoi occhi vedevo un’altra storia,
e quella notte sognai di un abito
che le tue mani adoravano, e di una spada.
Il resto, Nausicaa, non vorrei
ricordarlo: la nave fatta a pezzi,
i marinai morti e un fantasma
che vagava nel pineto dell’isola.
Dei pini che erano così belli
non mi rimane ormai nemmeno l’ombra.
Itaca era un giardino, ma oggi sento solo
il canto dei serpenti; rami duri,
prugnoli anziché mandorli e la pietra
dove qualcuno scrisse tutto è vano.
Messaggio per la regina
Serba questi versi. Non dire alla regina
quando mi hai visto, né in quali sentieri
del nascosto giardino. Non raccontarle
che ho parlato nel sonno di tigri e di uccelli,
né che insonne ho visto il purgatorio
in un libro di pagine stellate.
Le scrivo cose belle e notturne
dell’arancio e delle porte. Di’ soltanto
che uscendo dal castello sono stato chiamato.
Conserva questi versi, ne va della mia vita.”
Giovanni Quessep, “Lettera immaginaria”, da “Ulisse e Nausicaa”
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“Gruppo di Polifemo”, copia romana in marmo di un’opera degli scultori Agesandro, Atenodoro e Polidoro, databile al I secolo a.C. circa (Museo archeologico nazionale di Sperlonga)
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“Io non sono mai partito da Itaca né ad Itaca sono mai tornato.
Non ho visto Priamo piangere sul corpo del figlio, né odorato
il profumo del legno con cui erano fatte le assi del cavallo
da cui sbucarono a notte i guerrieri che avrebbero distrutto
una città e fondato l’impero di una civiltà. Non ho rubato le armi
di Aiace né mai ho convinto Circe o Calipso a donarmi
per amore il corpo o la giovinezza, l’estasi o l’oblio.
A casa non ho mai avuto Penelope ad attendermi né Telemaco
ha mai cercato il padre che non sono mai stato.
Sono arrivato qui per caso,
qui dove non fioriscono gli ulivi e le mandorle non hanno il sapore
dell’estate e della sete. Ho visto molto, ho visto troppo
o troppo poco. Quanto basta per capire che in quel poco di spazio
che c’è tra un pianeta e le stelle c’è posto per tutto,
e che ogni giorno è felice se vuoi che lo sia;
e pieno di dolore, se non sai farne a meno.
Ora sogno di varcare un giorno le colonne d’Ercole
e d’incontrare, su una montagna bruna che esce dal mare,
un uomo che abbia il mio volto, le mie mani, i miei occhi
e mi dica: eri tu che io aspettavo, eri tu.
Non incontrerò mai quell’uomo, eri tu.
Non incontrerò mai quell’uomo, lo so,
ma a notte, mentre una donna che somiglia a Penelope
mi carezza con una tenerezza che Penelope non ha mai avuto,
sento che quell’uomo, nel buio, mi guarda
e mi parla di un’isola lontana, dove non sono mai stato,
dove non andrò mai perché è tempo ormai
di essere felice, qui, in questa via chiassosa di Manhattan
dove guardando un fast food intuisci
che il tempo è un’invenzione degli dei
che hanno invidia per gli uomini che muoiono.”
Emilio Piccolo (eteronimo di Luther Blissett)
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Nell’immagine in evidenza: John William Waterhouse, “Ulisse e le sirene”, 1891