…Per qualche strana ragione, quando penso a Modigliani, lo associo sempre alla poesia. Forse perché gli fui presentato dal poeta Max Jacob o perché quando Max ci presentò, fu nel 1913 a Parigi nei giardini del Lussemburgo, Modigliani cominciò improvvisamente a recitare a memoria la Divina Commedia con quanto fiato aveva in gola? Ricordo che, pur senza capire una parola di italiano, fui affascinato dal suo impeto melodioso e dalla sua bellezza: appariva aristocratico anche nei logori abiti di velluto a coste. Ma ancora molto tempo dopo che l’ebbi conosciuto, Modigliani ci sorprendeva spesso, talora nei momenti più impensati, con il suo amore per la poesia.
Ricordo una scena avvenuta una notte (dev’esser stato nel 1917) molto tardi, potevano essere le tre del mattino. Fummo improvvisamente svegliati da un terribile colpo alla porta. Aprii, era Modigliani, evidentemente ubriaco fradicio. Con voce malferma cercò di spiegarmi che ricordava di aver visto sul mio scaffale un volume di poesie di François Villon e che avrebbe desiderato averlo. Accesi la lampada a petrolio per cercare il libro, sperando che se ne andasse e mi lasciasse dormire.
Ma mi sbagliavo; si sistemò in una poltrona e cominciò a recitare a voce alta.
Vivevo in quell’epoca in rue du Montparnasse 54, in una casa abitata da gente che lavorava, e ben presto i miei vicini cominciarono a battere alle pareti, al pavimento, al soffitto della mia stanza gridando: «Piantatela con questo baccano!»
La scena è ancora viva nella mia mente: la piccola stanza, l’oscurità della notte inoltrata interrotta soltanto dalla misteriosa, vacillante luce della lampada a petrolio, Modigliani ubriaco, seduto come un fantasma sulla poltrona, che recitava imperterrito Villon a voce sempre più alta, accompagnato da un’orchestra di colpi tutt’attorno alla nostra piccola cella. E non si fermò che ore dopo, quando fu esausto.
Discutevamo spesso di poesia, Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud e quasi sempre egli recitava a memoria qualche loro verso. Il suo amore per la poesia mi commuoveva, ma ancor più ammiravo la sua memoria veramente eccezionale.
Ora però, quando ripenso al momento in cui incontrai per la prima volta Modigliani nei giardini del Lussemburgo, non posso dissociare quella scena stupenda, il tramonto parigino e il bellissimo verde attorno a noi, dalla tragica fine di Max Jacob, meraviglioso poeta e amico delicato. Quando seppi delle sofferenze di Max nel campo di concentramento di Drancy durante il primo periodo dell’occupazione tedesca in Francia, quando lessi della sua morte lenta e dolorosa su un sudicio pavimento tra altri martiri, la scena dei giardini del Lussemburgo mi tornò viva alla mente.
La Divina Commedia recitata da Modigliani e l’inferno sofferto da Max Jacob formano insieme un’immagine patetica, appropriata a una rievocazione di Modigliani. Anch’egli seppe cosa sia soffrire. Fu malato di tubercolosi e ne morì; soffrì la fame e la povertà. Ma fu in pari tempo una natura ricca, veramente degna di essere amata, dotata di talento, sensibilità, intelligenza e coraggio.
Ed era generoso, perfino prodigo, dei suoi doni che disperse sconsideratamente al vento di tutti gli inferni e paradisi artificiali.
Prima di essergli presentato, avevo visto spesso Modigliani nei caffè e per le strade di Montparnasse. Un mio amico, il pittore e poeta triestino Cesare Sofianopulo, che fu mio compagno di studi all’Académie Julian nel 1911 e di cui feci il ritratto in quell’epoca, mi ricordava in una lettera di poco precedente la seconda guerra mondiale che anche Modigliani veniva a scuola con noi. Ma non me ne rammento affatto. La prima volta che c’incontrammo fu quando Max Jacob ci presentò, e Modigliani mi invitò nel suo studio alla Cité Falguière. In quell’epoca si dedicava alla scultura e, com’è naturale, ero specialmente curioso di vedere le sue opere.
Quando arrivai nel suo studio, era primavera o estate, lo trovai che lavorava all’aperto. Alcune teste di pietra, forse cinque, stavano sul pavimento di cemento nel cortile davanti al suo studio, ed egli cercava di adattarle l’una all’altra.
Lo vedo come fosse oggi, chino sulle sue teste, assorto a spiegarmi che le aveva concepite tutte come parti di un insieme. Mi sembra che queste teste siano state presentate poco dopo, nello stesso anno, al Salon d’Automne, disposte a scala come le canne di un organo per meglio esprimere quel senso musicale che egli desiderava.
Modigliani, come molti altri a quell’epoca, credeva fermamente che la scultura fosse malata, che si fosse gravemente ammalata con Rodin e l’influenza che egli aveva esercitato. Si modellava troppo in argilla, c’era “troppo fango”. L’unico mezzo per salvare la scultura era di ricominciare a intagliare, a intagliare direttamente nella pietra. Avemmo discussioni molto accese su questo argomento, perché io non credevo affatto che la scultura fosse malata e nemmeno credevo che intagliare direttamente la pietra potesse per se stesso risolvere qualche cosa. Ma era impossibile rimuovere Modigliani: egli era tenacemente convinto di quello che affermava. Aveva visto molte opere di Brancusi, che abitava vicino, e ne subiva l’influenza. Quando parlavamo dei diversi tipi di pietra, pietre dure e pietre dolci, Modigliani diceva che la pietra in sé non faceva molta differenza; quello che importa è dare alla pietra intagliata il senso della solidità, e questo non può farlo che lo scultore: indipendentemente dalla pietra che usano, molti scultori danno alle loro opere un’apparenza di morbidezza, mentre altri possono usare anche le pietre più dolci e ottenere tuttavia un’impressione di solidità.
La sua opera plastica mostra come egli concretò quest’idea. Era caratteristico di Modigliani parlare così. La sua era un’arte di sentimento personale. Lavorava con ardore, schizzando un disegno dopo l’altro senza fermarsi a correggere o a riflettere. Sembrava che lavorasse mosso esclusivamente dall’istinto, che aveva tuttavia assai fine e sensibile, dovendo forse molto all’eredità italiana e al suo amore per la pittura dei primi maestri del Rinascimento. Non cessò mai di essere attratto dalla gente e la ritraeva, per così dire, con abbandono, incalzato dall’intensità del sentimento e della visione. Per questo Modigliani, benché ammirasse l’arte negro-africana e le altre parti primitive al pari di ciascuno di noi, non ne fu mai profondamente influenzato, come non lo fu dal Cubismo. Ne derivò certi tratti stilistici, ma non fu mai toccato dal loro spirito. Provava un godimento immediato per le loro forme nuove e strane, ma non poteva permettere che l’astrazione interferisse nel sentimento e si frapponesse tra lui e i suoi soggetti. Per questo i suoi ritratti sono così vivacemente caratterizzati, i suoi nudi così sensualmente schietti.
Vorrei ricordare qui altri due pittori la cui opera influenzò lo stile di Modigliani, anche se raramente sono posti in relazione con lui: Toulouse-Lautrec e Boldini, che ebbe fama di essere uno dei più eleganti e ricercati ritrattisti d’Europa. Se le convinzioni di Modigliani erano forti, altrettanto lo erano il suo orgoglio e il suo coraggio, che rasentavano quasi la temerarietà. Vorrei ricordare un episodio ben noto che illumina questi tratti del suo carattere. Modigliani non era fisicamente robusto; un giorno tuttavia, in un caffè, attaccò da solo un gruppo di monarchici, che in Francia sono noti per il loro militaresco coraggio. Volle affrontarli perché li aveva sentiti sparlare degli ebrei in modo offensivo. Modigliani naturalmente era conscio della sua condizione di ebreo e non poteva sopportare nessuna critica ingiusta su tutto un popolo. Non era mosso da motivi politici o d’altro genere: era semplicemente un tratto innato della sua personalità, una tendenza molto caratteristica della sua natura, comprensibili data la sua provenienza da un’antica famiglia italo – ebrea. La madre discendeva dal grande filosofo Spinoza: sentii spesso Modigliani parlare di lei con adorazione e rispetto.
Il suo giudizio critico sulle arti plastiche era molto acuto. Fu lui ad aiutare il pittore Chaim Soutine che a quel tempo era noto soltanto a qualcuno di noi: e riuscì a convincere Leopold Zborowski che era il suo mercante, a interessarsi all’opera di Soutine. Poco prima di morire già molto malato, Modigliani disse a Zborowski: «Non ti preoccupare, in Soutine ti lascio un uomo di genio». Per comprendere meglio questa frase, è necessario conoscere più a fondo i rapporti che correvano tra Modigliani e il suo mercante.
Agli inizi della prima guerra mondiale Leopold Zborowski, un poeta polacco povero ma innamorato dell’arte, si affannava a guadagnarsi da vivere nell’affamata Montparnasse. Comprava e rivendeva libri e con il poco che guadagnava grazie a queste operazioni acquistava quadri, dapprima dal suo vicino e amico Kisling finché, su consiglio di Kisling cominciò a trattare con Modigliani. Kisling fu sempre un buon amico di Modigliani. Vidi spesso Modigliani lavorare nello studio di Kisling servendosi dei suoi modelli e anche del suo materiale, e incontrandovi la molta gente che veniva a trovare Kisling compagno generoso e cordiale. A poco a poco Zborowski fece fortuna con i suoi pittori; divenne noto come il mercante di Modigliani, la cui opera si rivelò negli ultimi anni una buona fonte di guadagno. Per questo Modigliani, sentendo avvicinarsi la fine prematura, disse a Zborowski di non preoccuparsi perché gli lasciava Chaim Soutine, un pittore di genio.
I vincoli che legavano Modigliani e Zborowski sono un esempio notevole dei rapporti quasi familiari che esistevano tra molti artisti e i loro mercanti nella Parigi di quell’epoca. Non tutti i mercanti erano sfruttatori e aguzzini. E la stessa cosa vale per alcuni collezionisti, che non pensavano affatto ad investimenti quando compravano un quadro o una scultura. Alcuni amavano veramente l’arte, come l’affascinante M. du Tilleul a cui Modigliani fece un bellissimo ritratto, o Alphonse Kann che tremava allorché veniva a trovarmi nel mio studio. Restava talmente colpito quando vedeva per la prima volta qualche nuova scultura, che non se ne andava senza portarsela nella sua meravigliosa casa. E come questi due, molti altri avevano per l’arte un amore genuino.
Nel 1916, avendo appena firmato un contratto con il mercante Leonce Rosenberg, avevo un po’ di denaro. Mi ero sposato da poco, e mia moglie ed io decidemmo di chiedere a Modigliani di farci il ritratto. «Il mio prezzo è dieci franchi per seduta e un po’ di liquore», mi rispose quando glielo chiesi. Il giorno seguente venne da noi e fece una quantità di disegni preliminari, uno immediatamente dopo l’altro, con rapidità e precisione impressionanti. Finalmente fu decisa la posa, ispirata alla fotografia delle nostre nozze.
L’indomani all’una Modigliani arrivò con una vecchia tela e la scatola dei suoi arnesi, e cominciammo a posare. Lo vedo ancora chiaramente: seduto di fronte alla tela che aveva collocato su una sedia, lavorava tranquillo, interrompendosi solo di quando in quando per bere un sorso di liquore dalla bottiglia che aveva accanto. Ogni tanto si raddrizzava e gettava un’occhiata critica sulla sua opera e osservava i modelli. Alla fine della giornata disse: «Bene, penso che sia finito».
Guardammo il nostro ritratto che in effetti era finito. Ma allora ebbi qualche scrupolo a trattenere il quadro al modesto prezzo di dieci franchi: non avevo previsto che potesse fare due ritratti su una sola tela in un’unica seduta. Gli chiesi perciò se non voleva continuare a lavorare ancora un poco alla tela, inventando pretesti per altre sedute.
«Sai – dissi – noi scultori desideriamo più sostanza». «Bene – rispose – se vuoi che lo rovini, posso continuare».
Ricordo che gli ci vollero quasi due settimane per terminare il nostro ritratto, probabilmente il tempo più lungo che egli abbia mai impiegato per un quadro. Questo ritratto rimase appeso in casa mia per molto tempo, finché un giorno chiesi al mio mercante di rendermi alcune sculture in pietra che sentivo non essere più rappresentative. Mi domandò più denaro di quanto potessi permettermi, e non mi restò che offrirgli in cambio il ritratto di Modigliani, che a quell’epoca era già morto. Quegli accettò, e non appena riebbi le mie sculture le distrussi. E così il ritratto finì nella raccolta dell’Art Institute di Chicago.
Due anni più tardi, nel 1922, il grande collezionista americano Albert C. Barnes scoprì Modigliani e Soutine. Nell’appartamento di Zborowski in rue Joseph Barat 3, Barnes comprò molte loro opere. Ricordo benissimo quella giornata, che destò tanto scalpore a Montparnasse e rimarrà negli annali della storia dell’arte. Da allora i due amici, Modigliani e Soutine, cominciarono ad avere fama internazionale. Nel 1951 il Cleveland Museum of Art li riunì, molto appropriatamente, in una splendida mostra collettiva.
Negli ultimi anni della sua vita Modigliani si affezionò sempre più a Soutine che aveva solo un piccolo studio, ma era sempre pronto a dividere con l’amico quello che aveva. La salute di Modigliani era ormai completamente rovinata, gli accessi di tosse gli impedivano di riposare e beveva sempre di più. Nell’inverno 1919 Zborowski raggranellò un po’ di denaro per mandarlo a Nizza a curarsi, ma non valse a nulla. In quell’epoca viveva in un piccolo appartamento con Jeanne Hébuterne e la loro bambina. A poco a poco i suoi quadri cominciavano a vendersi, e tutti noi speravamo che potesse ancora raggiungere un’esistenza più ordinata e maggior fortuna. E invece, nel gennaio 1920, Kisling ci portò la terribile notizia della sua morte.
Era stato portato all’ospedale, e il giorno dopo se ne era andato. Ci dissero che mentre lo trasportavano all’ospedale, continuava a ripetere: «Italia, cara Italia!» e che negli ultimi momenti di coscienza lottò disperatamente per tenersi in vita, balbettando versi nel delirio.
E poi giunse la tragica notizia del suicidio di Jeanne Hébuterne. Era incinta di quasi nove mesi di un altro figlio di Modigliani, e quando arrivò nella camera mortuaria dell’ospedale si gettò su Modigliani, coprendone il viso di baci. Lottò con gli inservienti che volevano trascinarla via, sapendo quanto fosse pericoloso per lei, che era incinta, toccare le piaghe aperte che coprivano il viso di lui. Era una strana ragazza, esile, con un lungo viso ovale che sembrava quasi bianco più che roseo, e i capelli biondi raccolti in lunghe trecce: mi colpì sempre il suo aspetto molto gotico.
Jeanne Hébuterne andò da suo padre, era stata ripudiata, perché viveva con Modigliani e si gettò dal tetto della casa. La famiglia si oppose a che fosse sepolta accanto a Modigliani, ma credo che in seguito siano stati riuniti. Considerando la bellezza di Modigliani, non è difficile capire come mai le donne ne andassero pazze: Jeanne Hébuterne, Beatrice Hastings e altre di cui non conosciamo neppure il nome, compresa la piccola studentessa che morì di tubercolosi non molto tempo dopo la morte di Modigliani.
Non dimenticherò mai il funerale di Modigliani. Amici, fiori, i marciapiedi affollati di gente che chinava il capo in segno di dolore e di rispetto. Tutti sentivano nell’intimo che Montparnasse aveva perduto qualcosa di prezioso, qualcosa di molto essenziale.
Kisling e Moricand, un amico, tentarono di fare la maschera mortuaria di Modigliani. Ma la fecero assai male e vennero a chiedermi aiuto con una quantità di pezzi rotti di gesso cui aderivano frammenti di pelle e capelli. Ricomposi i frammenti e, poiché mancavano molti pezzi, dovetti sostituire le parti mancanti alla meno peggio. Feci tuttavia dodici calchi di gesso, che furono distribuiti tra la famiglia e gli amici di Modigliani. Quando morì, Modigliani era tutt’altro che sconosciuto. Parigi era piena di gente strana e sconcertante, molti dotati di talento e alcuni di genio, ma egli eccelse sempre su tutti. E tra noi la sua fama di pittore si era affermata, benché, come già ho detto, solo nel 1922 egli cominciasse a essere noto su un piano internazionale.
Fino a quell’anno Zborowski penò molto e affrontò parecchie difficoltà per far conoscere al pubblico l’opera dell’amico. Ricordo due mostre che Zborowski organizzò nel 1915 o 1916. Una fu allestita in un piccolo negozio presso le Tuileries. e vi erano parecchi ritratti di Zborowski eseguiti con il pesante impasto che più tardi Modigliani abbandonò. Ma il tentativo più ambizioso di Zborowski mentre Modigliani era ancora vivo, fu la mostra allestita nel 1917 nella galleria Berthe Weill in rue Lafitte. Prr attirare l’attenzione del pubblico aveva collocato nella vetrina quattro nudi. Sfortunatamente li vide per prima la polizia, che obbligò Zborowski a ritirarli dalla vetrina. Venne da me con il cuore spezzato. Aveva riposto in quella mostra tutte le sue speranze e ora temeva che nulla avrebbe attirato la gente dalla strada nella galleria. Propose di vendermi i quattro nudi per cinquecento franchi; ma cosa avrei fatto di quattro nudi appesi alle mie pareti?
Qualche anno più tardi un nudo di Modigliani, forse uno dei quattro, fu comprato da un collezionista francese per quasi un milione di franchi. Pochi anni dopo la sua morte le opere di Modigliani erano avidamente ricercate dai collezionisti, e il loro valore continuò a crescere.
Paragonata alla vita di un Tiziano o di un Michelangelo, la vita di Modigliani fu un rapido lampo sfolgorante. Avrebbe dipinto altrettanto bene se avesse vissuto una vita diversa, meno dissipata e più disciplinata? Non so. Era consapevole delle sue doti, ma la vita che condusse non la condusse a caso. La scelse. Una sera a pranzo notai quanto apparisse malato. Mangiava in uno strano modo, quasi ricoprendo il cibo di sale e pepe prima ancora di assaggiarlo. Quando lo esortai a esser meno autolesionista e a mettere un po’ d’ordine nella sua vita, andò in collera come mai l’avevo visto prima.
Concludendo queste brevi note, vorrei dire che, pur essendo morto così giovane, egli ebbe quello che voleva. Più di una volta mi disse che desiderava una vita breve ma intensa: “Une lie brève mais intense”.