Affabulazioni

Questo terribile intricato mondo

01.09.2023
Ecco ritorna
Uno. Tutto accade.
Nuoro, 22 dicembre 1911, corridoio del tribunale.
Lo guardai malissimo, e Pietro, a sua volta, guardò male me. – Non è che mi fai paura, io quello sguardo da matto lo conosco bene.
Continuai a fissarlo: – No, è che a volte mi sembra incredibile che tu faccia certi discorsi, quasi quasi mi viene il sospetto di avere a che fare con un estraneo.
– E che tu vuoi sentire solo quello che ti pare e piace, Bustià!
– Guarda che non ci metto niente a mandarti a quel paese, intesi?
Pietro Mastino fece di spalle: – E allora? Cosa ti credi che c’ho paura?
– Senti Piè, mi arrendo, va bene? La guerra è una bella cosa, anzi troppo poche ce ne sono… Una noia… Volevo vedere se ce l’avevi in casa cosa ne dicevi… Perché non lo chiediamo ai libici com’è la guerra.
– Fai lo spiritoso, lo ribadisco: non ho detto che la guerra è una bella cosa, io questo non l’ho mai detto! Semmai l’ha detto il tuo collega Giovanni Pascoli: «La grande proletaria s’è mossa!»
Pietro quando non vuoi capire non c’è nulla da fare: – Io continuo a pensare che questa, come tutte le guerre, è roba per ricchi pagata da straccioni. Noi ci rimettiamo la vita e loro sistemano le economie.
– Bustià, parli come un ragazzino e nemmeno tanto intelligente: noi chi? loro chi? Noi e loro siamo la stessa cosa…
– Se potessimo avere voce in capitolo magari, adesso viene pure fuori che siamo in una democrazia.
– Non come la intendi tu.
– E come la intendo io? Avanti sentiamo…
– Eh, non ti rispondo, va bene? Ho discusso tre cause stamattina, e me ne mancano altre due. E tu c’hai il brutto vizio che quando sei in torto provochi, Bustià, uno di questi giorni mi dimentico che sono tuo amico… Per questo adesso ti auguro di passare le feste al caldo e in compagnia di chi ti vuole bene…
Pietro Mastino fece per andarsene. Lo fermai:
– Sono preoccupato per Gaetano… E poi noi e loro non siamo la stessa cosa…
– Gaetano tuo cognato?
Feci cenno di sì: – Aveva una licenza premio poi revocata, pare che sia stato spostato sul fronte caldo.
– Clorinda che dice? – Il tono di Pietro era ritornato amabile.
– Clorinda figurati, non ne sa niente, lei si aspetta che il fratello ritorni almeno per l’Epifania…
– Vabbé Bustià, non fasciamoci la testa prima di cadere… Lasciami sentire un paio di persone e poi ti dico… Dov’è arruolato tuo cognato?
– Nell’11° Bersaglieri… Lo sai anche tu che le cose da quelle parti stanno andando male…
– Non stanno andando male, Bustià, ma non stanno andando bene come dicono i giornali.
– Tanto per cambiare…
Nuoro, 22 dicembre 1911, caffè Tettamanzi.
Cielo da neve. Dentro al locale c’era una condensa di aliti e bibite calde. E c’era il brusio compatto delle tarde mattinate gelide, quelle in cui viene voglia di starsene a letto magari abbracciati a chi si vuol bene.
Bustianu intercettò il fratello intento a scaldarsi le mani con una tazza bollente.
– Da molto stai aspettando? – Il fratello fece cenno di no. E sorseggiò con la punta delle labbra la sua bevanda fumante. Bustianu sorrise appena. – Che cosa stai bevendo?
– Ho chiesto un tè caldo, stanotte non sono stato bene con lo stomaco… È da un po’ che non ci vediamo…
– Lo so, dal 4 ottobre per la precisione…
– Già… Tu come stai?
– Tutto a posto…
– Sì, ti trovo bene…
– Bene. – Poi silenzio.
Ecco, Bustianu quel silenzio lo conosce da sempre. È un silenzio tra persone che nutrono dell’affetto, ma non sanno come dirselo. Fin da bambini era stato chiaro che uno avrebbe per sempre fatto la parte di quello che agisce e l’altro di quello che subisce.
Raimonda li chiamava acqua e olio, bianco e nero, due cose che non si mescolano nemmeno con la pazienza dei secoli. Come Giacobbe ed Esaù, ma non come Caino e Abele, graziaddio! A Raimonda era stato chiaro da subito quello che aveva combinato mettendo al mondo quei due. Che avesse partorito contrasti lo sapeva, ma non sapeva come raccontarlo. Poi un giorno sognò o vide. O ricordò di quando aveva appena scoperto di essere incinta, dalla finestra entrava un vento balenteddu, così Raimonda si sporse dal davanzale per chiudere le imposte e vide, dove finiva il campo di Basilio Boneddu, contemporaneamente, Giorno e Notte. Ma non fusi come nella malinconia del pomeriggio, o nel congedo della sera. No, vide con precisione quanto sarebbe impossibile da vedere: lì dove muore il salice c’era la luce impudica del mezzogiorno, lì invece, dove comincia il poggio, ecco la notte scurissima del sonno profondo. E niente nuvole, racconta, il cielo diurno è terso come il piú terso dei cieli; e quello notturno è stellato, straziato di luci vibranti.
Ma quelle sono solo storie: qui conta che Angelo è delicato, di pasta buona, mentre Bustianu è venuto fuori rustico… Loro si vogliono bene soltanto se stanno lontani perché tutto li separa, solo Raimonda, per quanto possibile, li riunisce.
– Quello che ho da dirti lo sai…
– Lo so infatti…
– Vorrei solo capire che cosa ti costa.
– Lo chiedi ogni anno, ogni anno lo chiedi! Mi costa che a me queste cose di cenoni e riunioni non mi sono mai interessate.
– Una volta all’anno non mi sembra un sacrificio, Bustià!
– E infatti non sto parlando di sacrifici. Ma mi dico: con tutta la fame che c’è in giro e la crociata in corso, quelli che frequentano la chiesa come voi dovrebbero stare attenti a non sprecare il cibo.
– Come faremmo se non ci fossi tu a custodire le nostre coscienze, Bustià.
– Vabbè ascolta, mi spiace che non sei stato bene, ma c’ho altro per la testa…
Per alzarsi Bustianu fece oscillare pericolosamente il tavolino del bar.
– Non hai nemmeno ordinato.
– Non voglio niente…
– Quindi che le dico a mamma?
– A mamma le parlo io.
Tornando verso il tribunale Bustianu capì qualcosa che gli era sfuggito fino a quel momento, o che, fino a quel momento, aveva cercato bene di non capire: lui ce l’aveva col fratello. Comunque la si mettesse ce l’aveva col fratello. Da quella volta della scampagnata.
Podere Tanca Manna, nei pressi di Nuoro, 29 agosto 1911
Clorinda teneva un cesto colmo di pesche fra le braccia. Gaetano scaricava dal carro gli altri viveri per la gita. Raimonda e mia cognata badavano a tenere sotto controllo i bambini di mio fratello. Angelo e io cercavamo un posto all’ombra.
– E perché? – stavo dicendo io…
Mio fratello mi guardò come quando ci bisticciavamo da bambini. – Per non farci prendere per i fondelli da quella gente lì, Bustià.
– Quella gente lì, quale?
– Turchi e marocchini, per esempio…
– E perché?
– E vabbè, sei irritante… Come perché? Perché ci stanno fregando la Libia.
– Che è nostra?
– Sì… ci sono i nostri soldi!
– No, i miei no. Lì ci sono i soldi delle banche cattoliche…
– Guarda che parli come un deficiente, Bustià, io qualche volta faccio fatica a sopportarti.
– Ah, deficiente, ma non abbastanza da non capire che quella che voi chiamate guerra di civiltà è solo una partita di giro…
– Eh certo, solo i relativisti come te non capiscono quanto siano importanti per una società le basi comuni…
– Che sarebbero? La Chiesa?
– No! I valori che incarna!
– E cioè: amore, povertà… pace?
– Io non lo so se voglio continuare questa discussione, Bustià…
– Eh, magari se devi dirmi che andare in guerra contro i turchi significa salvare i nostri valori «spirituali», forse è meglio che la smettiamo qua.
– Che cosa vuoi Bustià? Eh?
– Innanzitutto che abbassi la voce e poi che ammetta che questa guerra la vogliamo fare per il denaro dei tuoi amici casa e chiesa.
Fu allora che Gaetano intervenne alle nostre spalle: – La vogliamo fare per riscattare il prestigio nazionale. E per vendicare Dogali e Adua… per questo.
Angelo si fermò in mezzo al sentiero per sorridere al mio giovane cognato. Ed è possibile che io abbia guardato Gaetano come Cesare guardò Bruto. Quel che è certo è che guardai mio fratello come Esaú, con la pancia piena di lenticchie, guardò Giacobbe con indosso una pelle di capra.
Marcello Fois, in Eraldo Affinati, “Questo terribile intricato mondo”, 2008
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Nell’immagine: George Grosz, “Giornata grigia”, 1921

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