ti scrivo questa lunga lettera a pochi giorni dal mio novantaduesimo compleanno, mentre tu hai quasi quattro anni e ancora non sai cosa sia l’alfabeto. Spero che tu possa leggerla nel pieno della tua giovinezza.
Ti scrivo alla cieca, sia in senso letterale sia in senso figurato. In senso letterale perché negli ultimi anni la vista mi ha letteralmente abbandonato. Ora non posso più né leggere né scrivere, posso solo dettare. In senso figurato perché non riesco a immaginarmi quale sarà il mondo fra vent’anni, quello nel quale tu dovrai vivere.
Vedi, mia cara, nell’ultimo trentennio i cambiamenti attorno a me sono stati tanti e alcuni del tutto inattesi e repentini. Il mondo non ha più lo stesso aspetto che aveva durante la mia giovinezza e maturità. A cambiargli la faccia hanno contribuito i mutamenti politici, economici, civili e sociali, le scoperte scientifiche, l’uso della tecnologia più avanzata, le grandi trasmigrazioni di massa da un continente all’altro, il quasi fallimento del nostro sogno che è stato l’Unione Europea.
Ma perché sento il bisogno di scriverti?
Rispondo alla mia stessa domanda con una certa amarezza: perché ho piena coscienza, per raggiunti limiti di età, che mi sarà negato il piacere di vederti maturare di giorno in giorno, di ascoltare i tuoi primi ragionamenti, di seguire la crescita del tuo cervello. Insomma, mi sarà impossibile parlare e dialogare con te.
Allora queste mie righe vogliono essere una povera sostituzione di quel dialogo che mai avverrà tra di noi. Perciò, prima di tutto, credo sia necessario che io ti dica qualcosa di me. Forse tua madre Alessandra te ne parlerà, ma preferisco essere io a dirti di me e dei miei tempi con parole mie, anche se, come mi auguro di tutto cuore, alcune di esse quali ad esempio nazismo, fascismo, razzismo, campi di sterminio, guerra, dittatura ti appariranno remote e inattuali.
Sono nato nel 1925 a Porto Empedocle, un piccolo paese nel Sud della Sicilia. La popolazione era in massima parte costituita da pescatori, operai portuari, carrettieri, contadini. Pochissimi i piccoli impiegati, ancor meno i commercianti. Quando andai alla prima elementare mi trovai in una classe di coetanei che vivevano quasi tutti in condizioni di semipovertà. Pensa che i figli dei contadini venivano a scuola con le scarpe appese al collo per non consumarle e se le mettevano solo quando entravano in classe. Credo di non essere mai riuscito a mangiare per intero la merendina che mamma ogni mattina mi metteva dentro la cartella. La dividevo quasi sempre con gli altri, non potevo sopportare lo sguardo invidioso e affamato dei miei compagni.
Andrea Camilleri, da “Ora dimmi di te. Lettera a Matilda”, 2018
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Foto in evidenza di Marcello Mencarini, Rosebud2, 1999