A Versuta c’era una ventina di ragazzi che non potevano a causa dei pericoli, frequentare la scuola di San Giovanni. Io e mia madre divenimmo i loro maestri; con che tremore, con che reale interesse mi accinsi a quell’avventura!
Ricordo le prime ore di scuola, così soffuse di un acre e quasi languido senso di verginità, in cui io già incominciavo a manovrare con astuzia il mio candido entusiasmo, facendo della “emozione” qualcosa come una figura retorica di nuova specie, con cui minare il mio discorso di pause, di riverenze, di esclamativi segreti. Ne lievitava un pacato tono di scandalo, di rivelazione, che determinava in tutto il ragazzo uno stato di curiosità per tutto quello che dicevo. La mia emozione si comunicava agli scolari, che sentirono allora per la prima volta l’ambiguo sapore dell’ironia e insieme l’attendibilità dei fatti e delle deduzioni stringenti.
Cominciai dalla preistoria: io pensavo al bestione di Vico, essi a una specie più fantasiosa di Tarzan, ma la base emotiva, mitica, era la stessa in ambedue, e così ci trovavamo d’accordo. Io, con un’astuzia calcolata, ma tutt’altro che fredda, sottolineavo i particolari insignificanti, lasciavo cadere nel vuoto di una stupefacente indifferenza i dati essenziali, giocavo con la loro attenzione, li deludevo, li scoraggiavo, ma per coglierli in un momento sempre speciale, risentito, del loro interesse. Insomma davo alle mie lezioni una specie di drammaticità, fingendo talvolta addirittura degli ingiusti cattivi umori, sotto cui lasciavo però ribollire intatta l’allegria con cui mi mettevo in rapporto con essi. Perfino le aride lezioni di grammatica erano divenute un gioco denso di quei contrasti (il buono e il cattivo, il vincitore e il vinto), che i fanciulli non dimenticano mai, nemmeno quando mangiano o vanno a letto.
I ragazzi che ho trovato qui a Valvasone sono di una sostanza umana meno intensa e complessa. Se penso alla sensibilità, momento delicato e rischioso della ricca di défaillances e di tendre, di Tonuti Spagnol, o alla applicazione celebrale di suo fratello Dante, o alla limpidità sottomessa e assimilatrice di Bepino Bertolin, o alla inventività del piccolo fauve sangiovannese, Eligio Castellarin o comunque alla forza di oggettivazione di tutti i ragazzi di Versuta, che tra gli errori di ortografia mi facevano leggere dei frammenti di italiano duri, umidi e poetici come pezzi di paesaggio, questi qui di Valvasone mi appaiono facili e leggeri. La loro tettonica ereditaria non presenta stratificazioni degne di rilievo; scarse sono le ricchezze minerarie della loro anima. C’è un filone d’oro in F.S., un ragazzo in piena crisi d’adolescenza, già più alto di me, con un viso che diverrà probabilmente bello, ma che per ora è quasi da sempliciotto non privo di fugaci astuzie. Disdegna il gioco del calcio, è socialista e dice brutte parole. In compenso ha un animo delicatissimo, pieno di riserve e di difficoltà; cede molto agli affetti (c’è un commovente “pezzo” su un suo compagno molto più piccolo di lui) e agli impulsi; nei temi è un retore della più bell’acqua, ma ha certi squarci poetici o umoristici (autocritica) veramente rispettabili.
C’è un filone d’oro anche in P.F., che nel tema “Letterina di ringraziamento a Umberto Saba per le sue poesie sul gioco del calcio” si dichiarò grato al poeta per avere appreso da lui “molte nuove e care parole italiane”; c’è un filone di oro anche in G.L., un brunetto da libro di fiabe, il quale mi assicura che ogni sera a letto “pensa alla morte”; degli altri quattordici scolari quasi tutti sono molto simpatici, qualcuno anche interessante, ma nessun altro possiede quell’attitudine speciale, quella sensibilità, magari anche un po’ malata, che serve all’uomo per rendersi conto di sé e del proprio mondo. In compenso quasi tutti sono molto curiosi e hanno disposizione ad apprendere; è nel latino che si trovano a loro agio! Hanno imparato il gioco e ci si divertono. Ah sì! La traduzione, in qualsiasi aspetto, è l’operazione più vitale dell’uomo.
La cosa che naturalmente più mi appassiona è il rapporto tra me e loro. Ricordo che quando dovetti spiegare la seconda declinazione, seguii un piano inventato in precedenza ma congegnato in modo da lasciare la più ampia facoltà inventiva nel momento delicato e rischioso della rivelazione. Mezz’ora prima dell’intervallo, in un momento di stanchezza, manovrai in modo che essi si mostrassero inquieti e qualcuno bisbigliasse, col compagno; avevo bisogno di un pretesto per paragonarli a dei bambini piccoli (cosa che fra l’altro vellica il loro orgoglio di puberi, turba inconsciamente i loro sensi e ottiene un subito e folto silenzio). Dopo averli paragonati a degli “infanti” finsi di lasciarmi trasportare dal discorso e rievocai la mia figlioccia di tre anni, a cui, per farla stare buona, racconto delle favole. E allora passai all’ironia: “Devo dunque raccontare delle favole anche a voi?”, e alla realizzazione stramba ed estrosa di quanto avevo minacciato: “C’era una volta un mostro che si chiamava Userum…”
Da prima mi ascoltarono divertiti, con gli occhi lucenti di una certa ironia riservata in parte alla figlioccia, in parte a me che mi comportavo così irregolarmente; ma poi un po’ alla volta cedettero all’interesse per il racconto e ascoltarono tutti orecchi la favola-centone che avevo improvvisato per loro. Si trattava di un mostro che pretendeva da un villaggio vittime umane (fanciulli e fanciulle!) da divorare, finché arrivava un cavaliere (un giovane generoso) che affronta il mostro e lo uccide non senza difficoltà in quanto esso è triforme: Us, che si getta nel lago, Er che ripara nel bosco, e Um che si arrampica tra le rocce. La leggenda di San Giorgio, l’Ariosto, il duello degli Orazi e i Curiazi: una vera macchina. Ma mi servì, allorché rapidamente e senza colorito nella voce (in quanto ero stato “attore” già nel narrare la favola) dichiarai che Us era “amicus”, Er “puer”, Um “donum”, che l’intero mostro era dunque quella seconda declinazione, che io ero il giovane che venivo a salvare essi, i fanciulli, dal sacrificio.
Ora, nel rincasare, pensai a quei miei accorgimenti, e cercai di interpretarli. Non apprezzavo molto la mia idea didattica; in quanto “idea” era stata un pretesto, e lo sapevo bene. La considerazione che feci, esercitando una specie di esame à rebours, fu questa: durante tutta la spiegazione mi comportai – in parte inconsciamente – in modo che essi non si accorgessero del mio gioco, forse per quella discrezione e quel ritegno che non mi abbandonano mai, e poi perché mi sembrava che fosse umiliante per loro colpirli così alle spalle, sfruttare la loro credulità, la loro disponibilità. Ma c’era anche una terza ragione: la mia passione pedagogica non avrebbe avuto più senso se avesse richiamato su di sé l’interesse dei ragazzi, se non fosse stata puro e impersonale veicolo di insegnamento! Ed ecco che fui illuminato improvvisamente. Capii che erravo credendo che il nostro rapporto dovesse essere un rapporto di reciproco amore: no, io dovevo mettermi in disparte, ignorarmi, dovevo essere mezzo, non già fine, d’amore.