«Ho sempre in mente un fornaio, un uomo che della vita non faceva gran conto. Il suo lavoro era come altrettante sorsate di vino: si ubriacava di stenti malgrado fosse ricco. Mi voleva bene, e anch’io lo amavo. Perché sposai quell’uomo pieno di farina come un pesce da mettere in padella, io non lo so.
So che stava ore ore chino sui forni e grondava sudore. Con il pane si guadagnava la vita. Perché l’ho sposato? Forse perché io amo il pane, la semplicità, la vita fresca, l’operosità e soprattutto perché ero già consapevole, a vent’anni, che tutti gli scrittori sono pazzi. Sono matti, e checché se ne dica, io li avevo lasciati tutti, ad uno ad uno, esasperata, contrita, impauritissima di quegli uomini di genio che non sapevano darmi un figlio. Io ero nata per avere figli, li sognavo sin da bambina.
Allora, per migliorare la razza degli scrittori scelsi un uomo semplice, e avvenne una bellissima combustione. Lui faceva il pane e io lo vendevo. Non sempre però: quando mi seccavo mandavo al diavolo clienti e panetteria. Anche a quel tempo ero irascibile e già un Poeta affermato: per questo ho sempre mandato al diavolo tutti quelli che minacciavano la mia pace domestica.
Mio marito è stato comunque anche il mio calvario. Nel senso che dopo il lavoro, quando si lavava, era talmente fresco e aggraziato che tutte le donne me lo guardavano. Non intendeva rinunciare ai sui baffi, anzi, li curava molto, e quando mi baciava mi pungeva la faccia».
Alda Merini, da “Lettere a un racconto”, 1998