“Le parole le amo, le amo anche troppo. Le uso in modo spropositato, le osservo, le sviscero con la precisione di un chirurgo e le uso terribilmente anche quando sarebbe più conveniente il silenzio. In questi giorni sotto gli occhi ne ho avuta sempre una: perdono.
Cosa dovrebbe poi significare? Dimenticare ciò che ci ha feriti? Chi ci ha fatto soffrire o ci ha largamente elargito una bella manciata di dolore da piegarci a volte per l’intera vita?
Eppure, continuo a guardarla, viene naturale separarla: per-dono.
È forse un dono? Un regalo? A chi poi? A chi ci ha regalato invece occhi pieni di lacrime?
Mi piace pensare che sia un dono per sé stessi. Perdonare non significa dimenticare, non significa liberare altri dalle proprie responsabilità, bensì liberarci dal dolore, dalla rabbia e dall’odio, non consentire a nessuno di essere padrone delle nostre scelte o influenzarle, significa poter guardare oltre e vedere quanto la vita abbia ancora da offrire. L’odio e il rancore influenzano anche la più piccola delle nostre espressioni e invece meritiamo di essere liberi, di essere autentici, di essere forti e invincibili, come se nulla potesse toccarci, anche se dentro abbiamo troppe domande senza risposte e ognuna è una fitta in gola e nel cuore. La prima lezione da imparare in fondo è questa: il male che ci viene dato porta con sé solo domande, infide, misteriose e crudeli che non avranno mai verità o spiegazione. Anche a volerle trovare, non faranno stare meglio, non guariranno le ferite, nessuna sarà sufficiente, nessuna basterà. Possiamo essere padroni di ciò che siamo, non degli altri, delle loro azioni, dei loro pensieri che seguono vie diverse dalle nostre e spesso sono opposte. Possiamo amarci come non siamo stati amati mai e spargere questo amore ovunque senza nessuna ragione per disobbedienza alla legge non scritta che ci vorrebbe schiavi del male che abbiamo ricevuto. Possiamo, dobbiamo, essere felici. E, sinceramente, fanculo a chi guarda da lontano le nostre cicatrici. Sono bellissime. Siamo bellissimi.