«Fino a poche settimane fa, ogni venerdì sera, all’accendersi della prima stella, si spalancavano tutte le grandi porte della Sinagoga, quelle verso la piazza del Tempio. Perché le grandi porte, invece delle bussole laterali e un po’ recondite come tutte le altre sere? Perché invece degli sparuti candelabri a sette bracci, quello sfavillare di tutte quante le luci, che traeva fiamme dagli ori, splendore dagli stucchi – gli stemmi di Davide, i nodi di Salomone, le Trombe del Giubileo – e sontuosi bagliori dal broccato della cortina appesa davanti all’Arca Santa, all’Arca del Patto col Signore? Perché ogni venerdì, all’accendersi della prima stella, si celebrava il ritorno del Sabato. Non la macilenta salmodia del cantore sperduto sul lontano altare; ma dall’alto della cantoria, nella romba osannante dell’organo, il coro dei fanciulli gloriava un cantico di sacra tenerezza, l’inno dell’antico cabbalista, “Lehà Dodì Lichrà Calà“: Vieni, o amico, vieni incontro al Sabbato… Era il mistico invito ad accogliere il Sabbato che giunge, che giunge come una sposa. Giungeva invece nell’ex-Ghetto di Roma, la sera di quel venerdì 15 ottobre, una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia. Non può esprimersi, l’agitazione le ingorga le parole, le fa una bava sulla bocca. È venuta da Trastevere di corsa. Poco fa, da una signora presso la quale va a mezzo servizio, ha veduto la moglie di un carabiniere, e questa le ha detto che il marito, il carabiniere ha veduto un tedesco, e questo tedesco aveva in mano una lista di 200 capi-famiglia ebrei, da portar via con tutte le famiglie».
«Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera, né altri Stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati. Si calcola che solo quelli del 16 ottobre ammontino a più di mille, ma certamente la cifra è inferiore al vero, perché molte famiglie furono portate via al completo, senza che lasciassero traccia di sé, né parenti o amici che ne potessero segnalare la scomparsa».
«Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il ‘treno piombato’, da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro».
Giacomo Debenedetti, da “16 ottobre 1943”