Affabulazioni

Il proprietario mi ha dato lo sfratto

22.10.2023
Il proprietario mi ha dato lo sfratto. Sembra che gli inquilini si siano lamentati del fatto che non lavoravo. Eppure mi sono sempre comportato bene. Scendevo le scale delicatamente. Ero sempre molto garbato. Quando l’anziana signora che abita al terzo piano portava una borsa troppo pesante, io l’aiutavo a salire. Mi pulivo i piedi sui tre zerbini che ci sono prima delle scale.
Osservavo il regolamento della casa affisso vicino alla portineria. Non sputavo sui gradini come faceva invece il signor Lecoin. Di sera, quando tornavo a casa, non buttavo per terra i fiammiferi che accendevo per farmi luce. E poi pagavo l’affitto, certo, lo pagavo. È vero che non ho mai dato la mancia alla portinaia, ma, dopo tutto, non la disturbavo mai molto. Soltanto una o due volte la settimana rientravo dopo le dieci. Non è niente per una portinaia dover tirare il cordone. Lo si fa meccanicamente, mentre si dorme.
Abitavo al sesto piano, lontano dagli appartamenti. Non cantavo mai, non ridevo, per delicatezza, perché non lavoravo.
Uno come me, che non lavora, che non vuole lavorare, sarà odiato sempre.
Io ero, in questa casa di operai, il matto che in fondo avrebbero voluto essere tutti.
Ero colui che si privava di carne, di cinema, di lana per essere libero. Colui che, senza volerlo, ogni giorno ricordava alla gente le loro miserie.
Non mi hanno mai perdonato di essere libero, di non avere nessuna paura della povertà.
Il proprietario mi ha dato lo sfratto legalmente, su carta da bollo.
I miei vicini gli hanno detto che sono sporco, altezzoso, e forse perfino che da me venivano delle donne.
Dio sa come sono generoso. Dio sa tutte le buone azioni che ho fatto.
Così come io mi ricordo di un signore che, quando ero piccolo, mi diede qualche soldo, allo stesso modo molti bambini si ricorderanno di me quando saranno cresciuti, perché spesso ho fatto loro dei regali.
Dà una gioia immensa sapere che esisterò sempre in quelle anime.
Bisognerà lasciare la camera. La mia vita è dunque così anormale da scandalizzare la gente? Non posso crederlo.
Tra quindici giorni sarò altrove, non avrò più la chiave di questa camera dovo ho vissuto tre anni, dove è caduta la mia uniforme di soldato, dove, congedato dalle armi, ho creduto che sarei stato felice.
Sì, fra quindici giorni me ne andrò. Allora i vicini avranno forse un rimorso, perché i cambiamenti toccano tutti, anche i più sensibili. Forse avranno, anche solo per un attimo, la sensazione di essere stati cattivi. Questo mi basterà.
Verranno nella mia camera vuota, e non essendoci più i mobili guarderanno dentro gli armadi. Ma non vedranno niente.
È finita. Il sole non mi dirà più l’ora sul muro. Il malato che abita sul mio piano, morirà quindici giorni dopo la mia partenza, perché bisogna ci sia qualcosa di nuovo. Verrà ridipinto qualcosa. Degli operai ripareranno il tetto.
È strano come tutto cambi senza di noi. Non sono riuscito a trovare una camera: allora ho venduto i miei mobili.
Sono le dieci di sera. Sono solo, in una camera d’albergo.
Ah, che piacere essermi sbarazzato dei vicini, essere partito, aver abbandonato Montrouge.
Mi guardo intorno, perché dopo tutto è in questa stanza che dovrò vivere. Apro l’armadio. Non c’è niente, a parte dei fogli di giornale sui ripiani.
Apro la finestra. L’aria immobile del cortile non può entrare. Di fronte, un’ombra passa e ripassa dietro una tenda. Sento le ruote di ferro di un tram.
Torno in mezzo alla stanza. Adesso la candela ben accesa cola e la fiamma immobile non fa più fumo.
Un tovagliolo piegato fa da tappo a una brocca d’acqua. Un bicchiere copre una caraffa. Il linoleum davanti alla toeletta è stato scolorito da dei piedi bagnati. Le molle del lettino luccicano. Dalle sale si alzano delle voci sonore, che non conosco.
Il gesso dei muri è bianco come il lembo del lenzuolo rivoltato sulle coperte. Uno sconosciuto si muove in una camera attigua.
Mi siedo su una sedia – una sedia pieghevole, da giardino – e penso al futuro.
Voglio credere che un giorno sarò felice, che un giorno qualcuno mi vorrà bene. Ma è già da tanto tempo che conto nel futuro!
Dopo mi corico – sul lato destro, a causa del cuore.
Le lenzuola dure sono così fredde che mi allungo solo molto lentamente. Sento che la mia pelle dei piedi è rugosa.
Naturalmente ho chiuso la porta. Eppure mi dà l’impressione di essere aperta, che possa entrare chiunque. Per fortuna ho lasciato la chiave nella serratura: così non potrà entrare nessuno con una seconda chiave.
Cerco di dormire ma mi vengono in mente i miei vestiti, piegati nella valigia, che si sgualciscono.
Il letto si scalda. Non muovo i piedi per non graffiare le lenzuola, perché mi fa venire i brividi.
Controllo che l’orecchio su cui appoggio il peso sia piatto, che non si pieghi.
Sono così brutte le orecchie allargate.
Il trasloco mi ha fatto diventare nervoso. Ho voglia di muovermi come quando sogno di essere incollato per terra. Ma resisto: bisogna dormire.
I miei occhi spalancati non vedono niente, neanche la finestra.
Penso alla morte e al cielo, perché ogni volta che penso alla morte penso anche alle stelle.
Mi sento piccolissimo vicino all’infinito, e abbandono presto questi pensieri. Il corpo caldo, vivo, mi rassicura. Tocco con amore la mia pelle. Ascolto il mio cuore, anche se mi guardo bene dal posare la mano sul seno sinistro, perché non c’è niente che mi spaventi come quel battito regolare che non comando, e che potrebbe così facilmente fermarsi. Muovo le articolazioni, e respiro meglio sentendo che non mi fan male.
Ah, la solitudine, che cosa bella e triste! Come è triste quando ci è imposta da anni!
Certi uomini forti non sono soli nella solitudine, ma io, che sono debole, sono solo quando non ho nessun amico.
Emmanuel Bove, da “I miei amici”, 2015
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Immagine in evidenza: Vilhelm Hammershøi, “Interno con giovane che legge”, 1898

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