16 ottobre 1943, rastrellamento del ghetto di Roma.
Alcune testimonianze:
“Domani arrivano in nazisti!”
“Nella capitale occupata, città aperta, a fine settembre la Comunità ebraica romana aveva subìto il ricatto di consegnare cinquanta chili d’oro entro 24 ore per evitare la deportazione, un’iniziativa del comandante della Gestapo a Roma Kappler che negoziò questa consegna, a cui parteciparono anche cittadini italiani. Nonostante questo, ci fu il rastrellamento. Nell’immaginario l’operazione si sarebbe svolta nel ghetto, invece è avvenuta in tutta la città, anche nelle zone periferiche. Seguita poi da una seconda deportazione nel gennaio del 1944. Gli ebrei catturati sono stati portati in una caserma dell’esercito italiano in via della Lungara e il 18 ottobre partirono per il viaggio di non ritorno”.
(Riccardo Pacifici, già presidente della Comunità ebraica di Roma)
“Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini… e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di Regina Coeli… Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? “Campo di concentramento” allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il Lager.”
(Settimana Spizzichino, da “Gli anni rubati”)
“All’epoca avevo 14 anni e non potevo minimamente immaginare quello che mi sarebbe accaduto. Abitavamo a Roma. Mio padre vendeva cioccolata all’ingrosso. Eravamo una famiglia normale. La mattina di sabato 16 ottobre del 1943, verso le 5,30, bussarono alla porta e ci svegliarono. Un tedesco e un fascista ci mostrarono un foglio e ci dissero che ci dovevamo preparare tutti per un viaggio. Non più di otto giorni. Così ci dissero. Prendemmo in fretta alcune cose e li seguimmo. Ci portarono alla stazione Tiburtina e ci caricarono sui carri bestiame. Uomini, donne, bambini, vecchi e giovani. Eravamo in cinquanta o sessanta persone sullo stesso carro. Faceva freddo e non c’era spazio neanche per sedersi. Come bestie. C’era mia madre, mio padre, mia sorella Wanda, mio fratello Luciano e mio zio Renato. Nessuno di noi sapeva cosa sarebbe successo. Appena scesi dal treno, ad Auschwitz, c’erano i cani e tanti militari tedeschi. Iniziarono a parlare in tedesco e per chi non capiva la loro lingua c’era un interprete. Ci divisero: uomini e donne, e poi chi poteva lavorare da quelli giudicati non idonei al lavoro. Da quel momento non vidi più né mia madre né mia sorella. Di mio zio poi seppi che fu mandato a morire perché giudicato inabile. Ci fecero fare il bagno. Nessuno di noi pensava alle camere a gas. Non sapevamo niente. Ognuno di noi diventò un numero. Il mio era il 158509. Eccolo, è ancora qui sull’avambraccio.”
(Enzo Camerino)
“Ho ricominciato piano piano, quando ho conosciuto mia moglie… Tutti sanno che sono stato ad Auschwitz, ma né la mia famiglia, né nessuno dei miei amici sa quello che è successo, come moriva tutta questa gente, perché non l’ho mai raccontato. I primi tempi, quei pochi che siamo tornati, con un tacito accordo, siamo stati tutti zitti, perché altrimenti come parlavi finivi al manicomio… Nessuno credeva a quello che stavi dicendo. E così abbiamo aspettato gli storici, ma gli storici non sono mai venuti: sono venuti dopo 50 anni e per non dire nemmeno la verità! Perché dovevano dire soltanto che il 27 gennaio ricorda solo la liberazione di Auschwitz e non i 6 milioni di ebrei morti. Lì ho visto morire zingari, partigiani, malati di mente… Bisognava ricordare pure questo!”
(Alberto Sed, ebreo romano)
“Mio padre si alzava alle tre di notte, lavorava alla stazione Termini e all’alba arrivavano le tradotte delle truppe tedesche, lui le aspettava sulla banchina e vendeva souvenir. Quando cominciò il rastrellamento era già al lavoro. Mia madre invece sentì dei rumori in strada, si affacciò e vide che i tedeschi stavano radunando in piazza tante persone ma pensò che portassero via soltanto gli uomini, così si vestì di gran corsa e uscì per andare ad avvertire mio padre di non tornare al Ghetto. Mi disse di restare in casa, tranquillo, che sarebbe tornata presto ma dopo un po’ non volevo più aspettare e scesi anche io…La vidi sopra un camion, presa dai tedeschi, la chiamai, lei mi gridò di andar via, urlava, urlava. Un soldato mi prese al volo e mi buttò come un pacco dentro lo stesso camion… Dopo poco mia madre mi abbracciò e mi diede una forte spinta… mi fece cadere giù dal convoglio più o meno in piazza di Monte Savello, sul lungotevere. Ecco, ricordo la gran botta che mi fece andare giù poi cominciai a correre, a correre, e poi mi nascosi dentro un tram…
Lei era bellissima, aveva 37 anni e non l’ho mai più rivista”.
(Emanuele Di Porto)
“Eravamo tutti e sei in casa: io, mio padre, mia madre e tre fratelli: Angelo, Mario e Graziella. Quasi all’alba sono arrivati, si sono presentati e con una lista di nomi hanno iniziato a perlustrare le stanze, convinti che nascondessimo qualcuno. Dentro gli armadi, in soffitta, in cantina. Niente. C’eravamo solo noi, gli altri parenti erano scappati le settimane precedenti. Poi con il mitra dietro la schiena siamo scesi in strada e saliti sui camion”.
(Lello Di Segni)
“Stavo con i miei nonni paterni. Mi presero assieme ai miei zii, i miei nonni e i miei cugini e mi salvai solo io. Il camion aveva gli indirizzi di tuti gli ebrei. In via della Luce, dove abitavano mio padre e mia madre che non c’erano, la portinaia si avvicinò e mi riconobbe. Quando il tedesco scese per fumarsi la sigaretta mio zio mi buttò verso la portinaia, che mi portò via di corsa”.
(Vittorio Polacco)