“- Dimme na cosa. T’allicuorde tu
‘e quacche faccia ca p’ ‘o munno e’ vista,
mo ca pe sempe nun ce vide cchiù?
– Si, m’allicordo; e tu? – No frato mio;
io so’ nato cecato. Accussì ncielo
pe mme murtificà, vulette Dio…
– Lassa sta’ Dio!… Quant’io ll’aggio priato,
frato, nun t’ ‘o può manco mmaggenà,
e Dio m’ha fatto addeventà cecato.
– È overo ca fa luce pe la via
‘o sole?… E comm’è ‘o sole? – ‘O sole è d’oro,
comme ‘e capille ‘e Sarrafina mia…
– Sarrafina?… E chi è? Nun vene maie?
Nun te vene a truvà? – Sì… quacche vota…
– E comm’è? Bella assaie? – Sì… bella assaie… –
Chillo ch’era cecato ‘a che nascette
suspiraie. Suspiraie pure chill’ato,
e ‘a faccia mmiez’ e mmane annascunnette.
Dicette ‘o primmo, doppo a nu mumente:
– Nun te la gnà, ca ‘e mammema carnale
io saccio ‘a voce… ‘a voce solamente… –
E se stettero zitte. E attorno a lloro
addurava ‘o ciardino, e ncielo ‘o sole
luceva, ‘o sole bello, ‘o sole d’oro…”
Salvatore Di Giacomo, “‘E cecate ‘e Caravaggio”, 1963
*Il titolo della poesia si riferisce al fatto che nel 1873 il filantropo Domenico Martuscelli Del Duca accolse dei giovani non vedenti in un palazzo che un tempo era stato un convento degli Scolopi e poi dei Barnabiti. Il palazzo, che sarebbe diventato la sede dell'”Istituto Martuscelli”, era attiguo alla chiesa di Santa Maria di Caravaggio, alla quale era collegato mediante un passaggio, per cui i suoi ospiti cominciarono ad essere chiamati “‘E cecate ‘e Caravaggio”
(“Dimmi una cosa. Tu ricordi
qualche viso che hai visto per il mondo,
ora che non ci vedi più per sempre?”
“Si, me ne ricordo. E tu?” – “No, fratello mio,
io sono nato cieco. Così in cielo
volle Dio, per mortificarmi”.
“Lascia stare Dio! Quanto io l’ho pregato,
fratello, non puoi neanche immaginarlo,
e Dio mi ha fatto diventare cieco.”
“E vero che il sole illumina la strada?
E com’è il sole?” – “Il sole è d’oro,
come i capelli della mia Serafina…”.
“Serafina? E chi è? Non viene mai?
Non viene a farti visita?” – “Sì, qualche volta…”
“E com’è? Molto bella?” – “Sì, molto bella…”
Quello che era cieco dalla nascita
sospirò. Sospirò anche l’altro
e nascose il volto fra le mani.
Disse il primo, un momento dopo:
“Non ti lamentare, perchè di mia madre
io conosco la voce… soltanto la voce…”
E tacquero. Intorno a loro
il giardino profumava e, in cielo, il sole
brillava, il sole bello, il sole d’oro.”)
Il commento di Sofia Loren, che interpretò questa ed altre poesie di Salvatore di Giacomo raccolte in un disco:
“Conoscevo pochissimo dell’opera di Salvatore Di Giacomo, qualche poesia, la trasposizione cinematografica di un suo lavoro teatrale, qualche brano offerto dalla TV. Poi, due anni fa, ebbi per le mani due volumi che raccolgono le sue opere.
È stato uno dei più significativi incontri letterari della mia vita. Non voglio dare con questo un giudizio critico, che appartiene agli specializzati in materia. Tante volte i più elaborati ricordi, le più evocative ricostruzioni delle nostre esperienze non valgono la folla di vive immagini, di profonde memorie che ci porta l’odore di un legno che brucia, o della terra bagnata dalla pioggia, o il sapore di un cibo. La lingua di Di Giacomo, questo stupendo dialetto napoletano, mi ha colpito appunto con la forza di una di quelle sensazioni primitive, riportandomi su un terreno dove tutte le immagini e i sentimenti trovavano radici ed eco immediate.
Il cane randagio sotto un portone, la monacella del convento, il cieco di Caravaggio, la mammana bisbetica e bonaria, e le centinaia di creature nate dalla calda ispirazione di Di Giacomo, si affollano ormai nella mia vita come creature che ho conosciuto veramente, immagini fatte sangue e corpo per le quali vibro di pietà o di amore o di divertita ironia.
Non so quanto di questo giudizio possa far parte dell’omaggio critico ad un poeta, o se non sia piuttosto un angolo troppo personale per accostarsi all’opera di Di Giacomo. Per me, comunque, è una sensazione unica e totale, e mi basta per amare senza riserve la poesia di questo grande napoletano. Mi sono anche chiesta se l’immediata risonanza, in me, del dialetto della mia infanzia facesse da stregone incantatore. Ma nel caso di Salvatore Di Giacomo il dialetto non restringe i confini del mondo poetico, anzi li estende oltre quelle zone che raramente sono toccate dalla poesia in lingua ufficiale.
I poemetti contenuti in questo disco siano accolti come il modesto devoto omaggio di una napoletana ad un grande poeta napoletano. Li ho recitati con questo spirito. Non ne avrei mai avuto il coraggio senza l’affettuosa spinta e l’intelligente sostegno del mio caro amico Vittorio de Sica.”
Sophia Loren, in “Poesie Di Salvatore Di Giacomo”, dal back cover del disco
(Il titolo della poesia si riferisce al fatto che nel 1873 il filantropo Domenico Martuscelli Del Duca accolse dei giovani non vedenti in un palazzo che un tempo era stato un convento degli Scolopi e poi dei Barnabiti. Il palazzo, che sarebbe diventato la sede dell'”Istituto Martuscelli”, era attiguo alla chiesa di Santa Maria di Caravaggio, alla quale era collegato mediante un passaggio, per cui i suoi ospiti cominciarono ad essere chiamati “‘E cecate ‘e Caravaggio”.)