Julia Cortéz entrò in quella stanza malvolentieri, ma la curiosità era più forte.
Lì c’era “il mostro”. Tutti ne parlavano. Lei voleva vederlo.
A quel minuto villaggio disperso tra le montagne, 50 anime in tutto, era arrivata qualche mese prima. Faceva la maestra.
“Avevo 19 anni, racconta. Io nemmeno sapevo chi fosse quell’uomo. Né come si chiamasse o perché lo avessero rinchiuso lì.
Ci avevano detto, sì, che c’era un cubano assassino, comunista, che veniva a imporci le sue idee e a farci del male. La peggior disgrazia che potesse abbattersi sulla Bolivia. Che quel tale era a capo di una banda che uccideva e stuprava le donne. Che portava sempre una corazza e un casco di acciaio, e che ucciderlo era impossibile.”
Per questo, Julia, non resistette alla tentazione di vedere finalmente quell’animale, quella bestia ferita, finalmente ingabbiata.
Solo quel giorno avrebbe saputo che il suo nome era Ernesto Guevara.
“Era su una sedia, nella stanza, dietro la porta, al buio. Lo rischiarava soltanto la luce di una candela. Aveva una coperta sulle gambe e con essa copriva anche il buco della pallottola, sul fianco. Era pallido, emaciato, sporco, anche se cercava di tenersi dritto”.
Il guerrigliero era appena stato catturato. Il sangue colava sul pavimento.
“Immaginavo di vedere altro”, dice Julia, “ quell’uomo non faceva paura”.
Racconta allora che lui alzò la testa per vedere chi fosse entrato nella stanza. Lei era rimasta come pietrificata.
– Si saluta, no?, le disse.
Lei non seppe cosa rispondere. Si girò e se ne andò di corsa.
Era il 9 ottobre 1967. La caccia all’uomo messa in atto dall’esercito boliviano coordinato dal dipartimento di stato americano e dalla Cia, si era conclusa con un brindisi. Alla Quebrada del Churo erano rimasti i corpi degli ultimi guerriglieri, e quello che rimaneva di un alito di libertà che per qualche tempo aveva sorvolato quelle cime dimenticate da Dio.
Alla “escuelita” di La Higuera, era finito Ernesto, nel suo ultimo viaggio.
“Sono tornata più tardi. La sentinella che mi aveva fatto entrare prima, mi disse che il prigioniero aveva chiesto di me. Non so perché. E ci tornai in quella stanza.
Lui mi guardò e mi chiese se ero la maestra. Gli risposi di sì. Lui sorrise, indicò la lavagna con la testa e mi disse che avevo scritto “àngulo” senza accento, che quello era un errore d’ortografia.
Poi cominciò a parlarmi. Non so come dire, quell’uomo che avevo davanti era diverso da tutti gli esseri umani che io avessi conosciuto.
Mi parlò del perché era venuto qui. Dei suoi ideali. Della rivoluzione. Dei diritti di tutti, soprattutto dei poveri e dei dimenticati. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Anche così, in quelle condizioni, era bello. Non era il mostro di cui tutti parlavano. Le sue parole restavano dentro.
Più tardi chiesi il permesso alla sentinella di portargli un piatto di zuppa.
– Di cos’è?, mi chiese lui quando la vide.
Di manioca, risposi io. Non so se gli è piaciuta, ma la mangiò tutta quanta, in silenzio. Poi mi guardò e mi disse: – Grazie.
Venti minuti più tardi – ero a casa, davanti alla scuola – sentii degli spari. Non so perché ma capii subito quello che era successo. Entrai di corsa in quella stanza. La porta era rimasta semiaperta. Lui era lì, scaraventato a terra.”
Mario Teràn, il sottufficiale dell‘esercito boliviano a cui era stato affidato il compito, era appena uscito, intriso di sudore, di paura e di polvere da sparo, col suo fucile M-2 in braccio, che questa volta pesava come non mai.
“Entrai in quella stanza malfermo sulle gambe”, racconta. “Mi avevano fatto bere non so quale intruglio per darmi forza. Ma quello si è messo in piedi, non appena mi vide. “Stai fermo e mira bene, mi disse. Stai per uccidere un uomo”.
Poi sono uscito, lasciando aperta la porta.
Per quella esecuzione gli era stato promesso un orologio e un corso di addestramento nella Scuola delle Americhe, tenuto da agenti nordamericani. Non ebbe nell’uno ne l’altro.
Ironie della storia: nel 2006, ormai quasi cieco, vecchio e malandato, è stato operato gratuitamente da medici cubani, che gli hanno ridato la vista.
Donna Julia vive ancora lì.
Non fa più la maestra, ma cerca di fare in modo, pressappoco da una vita, che quella porta rimanga sempre aperta.