Iniziamo l’elenco dei tormentoni linguistici con “Apericena”. No, apericena non è un errore ma un neologismo assai diffuso e, al tempo stesso, una mia personale e patologica ossessione. Da anni, infatti, combatto questo terrificante demone linguistico (se fosse un numero sarebbe 666, la personificazione del male), questa ambigua parola macedonia, dall’aspetto sgraziato e il genere tuttora incerto (ancora non abbiamo capito se sia maschile o femminile), nata dalla scellerata crasi di altri due vocaboli (aperitivo e cena), una parola brutta, cacofonica, priva di significato, falsa, irreale («L’apericena non esiste» scriveva qualche anno fa il medico-nutrizionista Federico Francesco Ferrero), che si riproduce per partenogenesi e crea tanti altri piccoli mostriciattoli (aperipranzo, aperimerenda, aperipasta, apeririso, aperipizza, aperisnack, aperibarbecue, apericarne, aperipesce, aperisushi…)
La sola visione di un buongiornissimo, che nei meme del mattino è generalmente accompagnato da grafiche policrome, tridimensionali e glitterate e da un interminabile caravanserraglio di tazzine di caffè, cuori, fiori, bambini, gattini e pupazzetti vari, mi manda di traverso la giornata e mi fa pensare – ma qui non posso scriverlo – «Buongiornissimo un…!».
Al di là (e non aldilà) dello sfogo personale, è solo per una questione di comparazione grammaticale: non essendo buongiorno un aggettivo, non è possibile spingere all’estremo il suo valore e, quindi, generare un superlativo assoluto.
Su Facebook molte persone, nel formulare una semplice domanda, non necessariamente imbarazzante, usano ormai l’espressione fissa «Chiedo per un amico» o, nella sua variante al femminile, «Chiedo per un’amica». Questa richiesta accompagna, in premessa o in appendice, quasi tutte le frasi interrogative; pare che sia diventata una sorta di formula di rito, un cerimoniale obbligatorio.
È vero, la prima volta è apparsa come una trovata simpatica e ci ha fatto sorridere; la seconda, simpaticuccia; la terza, così così… La sessantaquattresima, irritante come l’ortica… Dalla trecentoventiduesima in poi, è diventata fastidiosa come i granelli di sabbia tra le lenzuola in una torrida notte estiva trascorsa in una stanza infestata dalle zanzare, senza condizionatore e connessione wi-fi.
Tra i tormentoni linguistici, questo è l’ultimo nato in casa Intercalari. E niente… buttato lì, come formula di esordio, all’inizio di una frase. Con il tempo, il piccolo e niente… è cresciuto, ha proliferato ed è andato a fare compagnia ai vari diciamo, in pratica, praticamente, effettivamente, cioè, in un certo senso, come dire…
Gli intercalari non sono altro che sequenze di suoni, parole o intere frasi che usiamo in modo irriflesso, meccanico, abitudinario, spesso senza accorgercene e senza che in fondo ce ne sia un vero bisogno, per imbottire i nostri discorsi e, più raramente, i nostri scritti. Nelle situazioni
informali sono del tutto innocui e tollerabili; nei contesti formali, bisogna però prestare molta attenzione perché questi riempitivi si trasformano in piccole e fameliche tenie che aggrediscono il flusso della comunicazione, frammentano il parlato, occupano abusivamente gli spazi riservati alle parole e cancellano i nessi sintattici. Non trasmettono contenuti reali ma stanno lì solo a colmare i silenzi, fare riprendere il fiato, sospendere giudizi e nascondere eventuali tentennamenti o motivi di imbarazzo. E quell’inutile, ingombrante e poco originale e niente…, che stiamo per dire.
Nata in televisione verso la fine degli anni Novanta, l’espressione «ma anche no» deve la sua popolarità soprattutto alla Gialappa’s Band, a Maccio Capatonda, a Maurizio Crozza, a Lillo e Greg e a qualche altro comico. Modismo, plastismo, intercalare, tormentone? Fatto sta che questa locuzione polirematica, assai diffusa tra i giovani, è ancora oggi molto usata (ai limiti del fastidio) con una duplice valenza: può servire a opporre un netto rifiuto a una proposta poco allettante (“Ti andrebbe di accompagnarmi sabato pomeriggio da Ikea? Ma anche no!”) o ad attenuare la forza del rifiuto stesso con una battuta (“Che ne dici di farci un altro Martini? Ma anche no!”).
Il fenomeno è tuttora in espansione. Ma anche no ha fatto la sua comparsa persino negli articoli di giornale e in altri testi scritti più formali e, peggio, non è più solo: gli fanno compagnia ma anche sì, ma anche meno e ma anche basta.
«Ho un’ultima cosa da dire e poi mi taccio». Quante volte abbiamo ascoltato i nostri politici usare questa frase durante un talk show? Peccato che poi non tacciano (o si tacciano) mai. Tacere, che significa “astenersi dal parlare”, “stare zitto”, “fare silenzio”, “chiudere la bocca”, come l’omonimo verbo latino da cui deriva, può essere sia transitivo sia intransitivo. Ne consegue che le forme taccio e mi taccio sono da considerarsi entrambe corrette. La prima è quella più diffusa nell’italiano contemporaneo; la seconda, più letteraria e arcaica, sopravvive ormai solo alla prima persona singolare (e per persona intendo l’Homo politicus) e puzza di sussiego e ostentazione.
«Parole ne abbiamo?». «Dizionari ne abbiamo?». «Errori ne abbiamo?». Da mesi, ormai, questa domandina stereotipata, composta da X (scrivete voi una parola a caso) e ne abbiamo? spopola nella rete. A farle compagnia, ci sono altre espressioni dilaganti, passate al minipimer, digitate in ciclostile, copiaeincollate febbrilmente, decuplicate in catene di montaggio fordiane e ripetute come tanti piccoli mantra: «Severo ma giusto», «Breve storia triste», «Se è porno, tolgo», «Solo cose belle», «Ma resto umile», «Meditate gente», «Bene ma non benissimo», «Mai una gioia», «Seguitemi per altre ricette», «Ma esattamente che problemi avete?», «Meritiamo l’estinzione», «Fate girare» e «Chiudete l’internet».
Tra un RIP e un Top, è tutto un susseguirsi di «Adoro», «Muoro», «Quoto», «Rubo», «Copio», «Spiaze», «Definitiva» e… «Post muto». Che dire al riguardo? Alcuni provano sensazioni tra il fastidio e il disgusto; altri sostengono che tali fenomeni siano utili per comprendere come stia evolvendo l’italiano contemporaneo sotto la spinta della comunicazione digitale e dei nuovi media; altri ancora, tra cui il sottoscritto, si limitano a osservare, con lo sguardo attento e curioso di un entomologo e il ghigno diabolico di Montgomery Burns.
Francamente non so se lo facciano per darsi un tono, per apparire più forbiti ed eleganti, per guadagnare tempo alla ricerca della parola necessaria ad andare avanti con il discorso, per prendere le distanze dai fatti riportati, per sottolineare un determinato passaggio o per creare nell’ascoltatore un improbabile senso di attesa. Certo è che sono sempre più gli oratori che, non accontentandosi più di un semplice articolo determinativo, si cimentano in questa nuova disciplina linguistica. L’ospite in studio parla di quelli che sono gli effetti collaterali del farmaco, l’inviato ci aggiorna su quella che è la situazione attuale sul fronte di guerra, il politico di turno ci illustra quelle che sono le riforme che il suo partito intende portare avanti. Sono i campioni del “quello che è”, “quella che è”, “quelli che sono” e “quelle che sono”, locuzioni plastificate, fastidiose, inutili, ridondanti, che non aggiungono nulla a un discorso, anzi, lo appesantiscono, lo rallentano, lo complicano, lo imbruttiscono.
«È un film da vedere, senza se e senza ma». «Il nostro futuro è l’Europa, senza se e senza ma». «Vogliamo esprimere al Santo Padre tutta la nostra vicinanza, senza se e senza ma». «Bisogna difendere la democrazia, senza se e senza ma». «Siamo tutti con lui, senza se e senza ma». Questa fastidiosa e abusata locuzione (che significa “senza indugi”, “senza condizioni”, “senza mezzi termini”, “che non ammette repliche”) ebbe una discreta fortuna una ventina di anni fa come slogan dei movimenti pacifisti americani contro la seconda guerra in Iraq.
Ma, a pensarci bene, di pacifico ha davvero poco; è una raffica di mitra, lo sparo di un cannone, l’esplosione di una bomba a grappolo. Ripetuta in maniera ossessiva, meccanica e acritica, utilizzata spesso fuori contesto, è diventata una delle espressioni plastificate più moleste in assoluto. Tra il tormentone e il… tormento.
E veniamo all’ultimo tra i 10 tormentoni linguistici selezionati: «Ti lovvo». Molti detestano questa espressione tipica del gergo giovanile – ma che ha fatto diversi proseliti anche tra gli adulti – che è nata da una simpatica commistione tra l’italiano e l’inglese e che testimonia, a modo suo, vivacità, leggerezza e fantasia.
Sacrilegio! Sul più puro, nobile e intenso dei sentimenti non si scherza. «L’amore è una cosa meravigliosa». «L’amore è vita». «L’amore è una sospensione del tempo». «L’amore è una parola di luce». «L’amore è il nostro vero destino». «L’amore è la più saggia di tutte le follie». «L’amore è l’artefice di tutte le cose».
D’accordo, questa inoffensiva espressione può piacere e non piacere; certo è che risulta più simpatica di «Ti amo di bene», un’altra invenzione gergale che è comparsa dal nulla qualche anno fa e, all’improvviso, diradandosi come la nebbia, è scomparsa.
Detto ciò, vi svelo un segreto: anch’io, ogni tanto, nei messaggi privati e nei post ironici, scrivo «Ti lovvo» e «Vi lovvo». Ma, mi raccomando, non ditelo a nessuno.
Massimo Roscia, da “Errorario”, 2023