Di giorno i partigiani dormivano, mangiavano, si distendevano al sole. Il sole era sempre su di loro, bruciava la schiena, anneriva le facce, pesava come un carico sulle spalle. La terra, le canne, la legna secca si riempivano di calore, tutto rimaneva caldo e arido anche dopo il tramonto, fino a quando cominciavano a svolgersi i veli sottili della nebbia di notte, sulla ferma umidità dei canali. Si sentiva allora l’odore morto degli stagni, odore di muri marci, di stracci bagnati, di muffa, come nelle case dei poveri. Erano sere di luna piena, non belle per le azioni. […]
I partigiani rientravano al campo, mettevano le armi nella capanna dell’albero, i sacchi di frumento in cucina, il conto dei morti nella memoria, e si facevano fare il caffè dall’Agnese. Poi si sdraiavano sui loro letti di terra, uguali in casa e fuori, con la testa sul rotolo della coperta. Dormivano aspettando le visite, si svegliavano per mangiare, e tornavano a dormire. Verso sera cantavano, con voce bassa, perché nessuno li sentisse, e il canto sembrasse poco più del fruscio delle canne, un po’ di vento più forte in mezzo alla valle. […]
La staffetta portava all’accampamento il pane, il vino, gli ordini, le circolari, la stampa, le notizie da radio Londra. Le notizie erano sempre le stesse: ”Continua la vittoriosa avanzata delle nostre truppe. Su tutto il fronte scontri di pattuglie”, e voleva dire che non avevano fatto niente.
“Gli scali ferroviari di X […] martellati”, e voleva dire che gli aerei avevano distrutta una mezza città. […] Agosto portò il primo temporale […] L’Agnese si sentiva male, e se ne meravigliava, lei che non conosceva né malattia né medicine. Seduta sulla panca zoppa dentro la capanna, immaginò di essere per morire, che il cuore si arrestasse come una macchina inceppata. Le dispiaceva per quel suo grande corpo pieno di carne, che sarebbe rimasto lì, ingombrante, e per la buca fonda che i compagni avrebbero dovuto scavare: una fatica dura con quel caldo e la terra tanto asciutta. Pensava all’inutilità dei cadaveri, che bisogna vegliare, lavare, seppellire. Sarebbe bello che la morte li disfacesse, come distrugge i sensi, la ragione, la coscienza, la forza dell’individuo, quando uno muore non dovrebbe rimanere niente di lui, una nuvola, un respiro, e il posto vuoto dove è caduto.
L’estate finiva sulla campagna impolverata, i giorni erano più corti, le notti si facevano fredde. L’Agnese dormiva bene nel letto che le avevano dato, dormiva dei lunghi sonni beati, e quelli della famiglia andavano in punta di piedi per non svegliarla. […]
La casa era silenziosa e pulita, si sentiva soltanto il rombo duro del fronte, e gli scoppi delle bombe quando gli aerei bombardavano i ponti e le strade. […]
Walter e i suoi lavoravano tutti per la “resistenza”, lui dirigente politico del paese, sua moglie e sua figlia staffette, sua cognata infermiera della brigata, e perfino il suo figlio minore, un bimbo di dodici anni, serviva a portar roba in giro, roba da farsi fucilare sul posto, se la trovavano i tedeschi. Ed erano tutti puliti e silenziosi come la loro casa, una piccola compagnia disciplinata, agli ordini del capo. Possedevano un bel podere che dava da vivere largamente, e l’orto e il frutteto e le mucche e il pollaio; non avevano bisogno di nulla e di nessuno, avrebbero potuto starsene sicuri nel loro angolo appartato, badare agli affari, curare gli interessi, far quattrini con la borsa nera, e invece rischiavano la pelle tutti i giorni: lavoravano per la “resistenza”.
L’Agnese stava bene con loro … ritrovava i suoi lavori di una volta, badava al maiale, alle galline, lavava la biancheria. In attesa del Comandante si occupava delle semplici cose che erano state nella sua vita da quando era al mondo, cose di un tempo in cui non conosceva né il partito né i tedeschi né i fascisti.
Il bambino scoppiò a piangere sulla porta, non poteva parlare. Diceva:– Il babbo […] il babbo […] – disperato, con le mani sulla faccia. Gli furono attorno in dieci, ma si calmò solo contro il braccio dell’Agnese.
E riuscì a dire che erano venuti la notte quelli della”brigata nera” […] e il babbo l’avevano portato via […]
– Bisogna avvisare il Comandante, – disse l’Agnese; e aggiunse, decisa: – Vado io.
Si preparò a partire, nel silenzio di tutti. Un partigiano le tenne dritta la bicicletta, l’aiutò a salire. Da quando lavorava tanto, il cuore le dava noia, faceva fatica a mettersi in sella. Andò via col ragazzo, e disse “arrivederci” soltanto quando era già lontano sulla strada e nessuno poteva più sentirla. Si fermò un momento alla baracca, vide piangere le donne, le vennero le lacrime agli occhi. Le parve che mancasse tutto, che quel po’ di calore di casa che avevano radunato fosse già disperso, finito.
Tedeschi in giro non ce n’erano, la giornata era grigia e tetra, piena di freddo, di scura aria invernale. […] Fecero un lungo tratto in silenzio, poi l’Agnese disse: – Tu lo credi che la guerra finisca presto? – Non so, – rispose Clinto. – Speriamo. Perché se non finisce la guerra, finiamo noi. – Noi non finiamo, – assicurò l’Agnese. – Siamo troppi. Più ne muore e più ne viene. Più ne muore e più ci si fa coraggio. Invece i fascisti e i tedeschi, quelli che muoiono si portano via anche i vivi. – Magari se li portassero via tutti – osservò Clinto. L’Agnese disse: – Dopo sarà un’altra cosa. Io sono vecchia, e non ho più nessuno. Ma voialtri tornerete a casa vostra. Potrete dirlo, quello che avete patito, e allora tutti ci penseranno prima di farne un’altra, di guerre. E a quelli che hanno avuto paura, e si sono rifugiati, e si sono nascosti, potrete sempre dirla la vostra parola; e sarà bella anche per me. E i compagni, vivi o morti, saranno sempre compagni. Anche quelli che non erano niente, come me, dopo saranno sempre compagni, perché potranno dire: ti rammenti questo e quest’altro? Ti rammenti il Cino, e Tom, e il Giglio, e Cinquecento.. Con quei nomi di morti, si rimisero a parlare di loro, ma non della morte: ne parlarono coi ricordi di prima, come se fossero vivi.
Renata Viganò, da “L’Agnese va a morire”, 1949