E non c’è più popolo, quello vero, strutturato in classi, popolo politico socialmente antagonistico. In minima parte, fatto salire sull’ascensore sociale, è stato accolto nella piccola borghesia, in massima parte, fatto precipitare giù per le scale, è caduto nel plebeismo.
Al posto del popolo politico c’è il populismo antipolitico. La classica dialettica moderna, di consenso e di conflitto, governanti/governati, è ridotta da realtà di lotta a virtualità di parola. Siamo tutti veramente nella stessa barca, come giornalisticamente si dice. I governi politici sono essi stessi economicamente governati. E i cittadini cosiddetti sovrani saranno sempre più chiamati a eleggere tecnici di sistema, manutentori della macchina, funzionari della moneta, amministratori del condominio-paese e poi, nel sabato del villaggio delle elezioni, a plebiscitare qualche venditore di tappeti.
Non credo che questa sia l’ultima stazione della storia. Mi eleggo da solo a pensatore della fine di una storia, non della storia. Mi chiedo spesso: ma perché, dopo secoli e millenni di vicende umane, appunto storiche, proprio in questi insipidi anni dovrebbe tutto cominciare daccapo? È forse tornato il Messia, come aveva promesso, a ridividere il tempo tra un prima e un dopo? Non mi pare. Non lo vedo. Ricordo sempre agli insopportabili cantori del «tutto è nuovo» una verità difficilmente contestabile: quelli che comandavano ai tempi di mio nonno, nato in pieno Ottocento, e morto in un ospizio per poveri, sono quelli che comandano ancora, solo imbellettati con un trucco che apparentemente li ringiovanisce, e quelli destinati a servire, come accaduto a lui e ai suoi discendenti, sono ancora lì a chinare il capo, allora in schiavitù coatta, oggi in servitù volontaria.