Pensieri

L’eurococco

07.12.2023
È il segnale che manda oggi la cultura occidentale. Per questo è l’antropologo ad accorgersene per primo e con maggiore chiarezza di chiunque altro. Ma quasi tutti in Occidente, e in particolar modo in Europa, percepiscono un disagio, un vuoto, cui non sanno dare un nome; un vuoto che li esaspera spingendoli a consumare, consumare, consumare: cibi, mode, parole, tempo, valori, droghe, sesso, vita. O forse: droghe come vita, sesso come vita. Gli stupri casuali, espressione di una violenza finale, quella del desiderio trasformato in odio, i suicidi-omicidi dei giovani, in preda alla pseudopotenza della droga e della velocità nelle cosiddette «stragi del sabato sera», gridano con disperata rabbia l’esasperazione di questo vuoto. Un vuoto che paradossalmente sembra pienissimo.
La fretta divora l’Occidente: l’assillo del non perdere tempo impedisce di accorgersi che in realtà non si produce quasi più nulla delle cose che contano: pensiero, scienza (il continuo sviluppo tecnologico non inganni: la tecnologia è soltanto applicazione della scoperta scientifica, non scoperta in sé), filosofia, letteratura, arte. Il mercato, la pubblicità, gli indici di Borsa hanno preso il loro posto e si ammantano di una «pienezza» di nuovo tipo: cambiano continuamente, aggiornano il mondo, minuto per minuto, della loro instancabile attività, delle loro avventure, delle loro trasformazioni in vincite e perdite, mentre gli uomini, la vita reale degli uomini, delle società, delle Nazioni, proiettata fuori dall’orizzonte di ciò che conta, affonda nell’indistinto, nell’amorfo, nel brulichio di quei frammenti non significanti e senza più nessuna possibilità di concatenarsi fra loro che stupiva e angosciava Robert Musil. È il brulichio delle innumerevoli vite che disintegrano un cadavere.
Una particolare infezione, l’«eurococco», di cui fantasticava Yvan Goll, è partita dalla crisi devastante della Germania e ha contagiato a poco a poco tutta l’Europa, minacciando il resto del pianeta.
Sfruttando il timore di una tale desertificazione è apparso all’orizzonte all’improvviso chi è riuscito a convincere il mondo che le Nazioni, gli Stati… l’Italia, possono «fallire»; anzi, che sono sul punto di fallire.
Parola incredibile, priva di senso riferita a un popolo, a una Nazione, a uno Stato. Nessun «popolo» fallisce. Può morire; e muore. Ma chi osa definire la morte un «fallimento»? Nazione, Stato, sono «figura» dei popoli. Non c’è nessuna Nazione, nessuno Stato, negli indici di Borsa. Non ci sono i popoli, il loro nome, la loro identità, la loro storia, il loro pensiero, il loro lavoro; non ci sono né nascite né morti, non ci sono né amori né pianti; non c’è quella «patria» per la quale si è data la vita cantando; non ci sono né la poesia né la musica; non ci sono, infine, né religioni né speranze di eternità: nulla.
Si chiamano “valori” di Borsa, ma appunto, usurpando il termine «valore», i governanti-economisti hanno compiuto un’operazione matematicamente invalida: i valori dei popoli non sono riducibili a numeri. Non sono quantificabili in cifre. Non si possono né sommare né sottrarre al capitale delle monete. Una Nazione, insomma, non è il suo Pil.
Ida Magli, da “Dopo l’Occidente”, 2012
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