Affabulazioni

Il mondo dei piedi freddi

13.12.2023
«Ogni tanto ho nostalgia di quella casa. Un giorno sono salito in macchina e sono andato a vederla: fuori è rimasta la stessa di quando sono arrivato io, ma dentro l’hanno un po’ sistemata».
La casa di cui parla Naiaga è un vecchio casolare fuori Manzano. È immerso in un boschetto di alti pioppi circondato da campi e in lontananza si scorgono le colline coperte di vigneti. Stranamente, le sagome delle fabbriche di sedie che segnano il paesaggio di questo paese di settemila abitanti a quindici chilometri da Udine, si intravedono appena.
Detto così sembra un posto da cartolina, perfetto per un agriturismo esclusivo, in realtà è un luogo disabitato da almeno quarant’anni. Quando Naiaga e alcuni suoi connazionali senegalesi vi entrarono, nella primavera del 1990, non c’era acqua corrente né elettricità. Mancavano anche le finestre. I cinque ragazzi giunti dall’Africa avevano trovato lavoro in alcune fabbriche della zona ma una casa in affitto per loro non c’era. Così, col permesso del proprietario, vennero “lasciati” alloggiare nel casolare abbandonato. Almeno avevano un tetto. Ma poco o nulla più di quello.
Oggi Naiaga abita con la moglie e i tre figli in un condominio di ex case popolari: ha comprato con un mutuo ventennale un appartamento all’ultimo piano. Quel casolare in cui ha vissuto per quattro anni gli è rimasto tuttavia nel cuore. Gli ricorda le difficoltà a cui è andato incontro per farsi una vita in una delle zone più ricche e produttive del Nord-Est italiano.
Nel momento in cui si paventò la possibilita di abitare nel casolare, da alcuni mesi lui e altri quattro connazionali facevano i pendolari tra Trieste, dove dormivano in un albergo vicino alla stazione, e Manzano. Le loro giornate erano molto lunghe: iniziavano alle quattro del mattino, quando si alzavano e si avviavano a prendere il treno. Alle sette erano a Manzano e a piedi raggiungevano la fabbrica. Alla sera, dopo nove o dieci ore di lavoro, spesso perdevano l’ultimo treno utile, così dovevano prendere quello successivo che arrivava a Trieste verso le undici. Prima di poter andare a letto c’era tuttavia da espletare la necessità della cena.
«L’albergatore è stato gentile con noi», racconta Naiaga, «dopo qualche settimana ci ha permesso di cucinare qualcosa in stanza, perché non potevamo andare avanti a mangiare sempre cose pronte. Comunque quella vita era costosa. Dopo due mesi avevo finito i soldi, tra albergo, treno e mangiare non mi rimaneva niente in tasca».
Decisero tutti assieme che dovevano trovare una casa a Manzano. Ma se per trovare un lavoro ci avevamo messo due giorni, per una casa in affitto la ricerca sembrava molto più difficile. Dopo le prime risposte negative chiesero “al padrone” se potevano dormire in fabbrica, sul pavimento, “spostando le pedane”, ma questi rispose che non era possibile, era fuori legge. Andarono con lui in Comune, senza trovare una soluzione, e pure dal parroco, che non aveva posto. La gente o non aveva case o era diffidente verso gli stranieri, i primi immigrati africani che si vedevano da queste parti.
La situazione viene confermata dal sindaco di allora, Giorgio Pozzetto: «Era un momento particolare: da una parte c’erano gli imprenditori che chiedevano un aiuto per alloggiare gli immigrati assunti nelle loro ditte, dall’altra c’era la gente che si dimostrava ostile. Quando, un paio d’anni dopo, aprimmo il centro di accoglienza utilizzando dei fondi regionali, ci furono forti proteste da parte di chi non voleva gli immigrati».
La situazione si risolse quando qualcuno fece il nome di un imprenditore che possedeva delle vecchie case e, forse, le poteva affittare.
«Siamo andati da lui e ci ha detto che aveva solo una casa vuota, dove non abitava nessuno da quarant’anni. A noi non importava, bastava avere un tetto, ma lui insisteva che non si poteva abitare lì. In quel periodo, alla sera ero così stanco e stufo che ogni angolo che vedevo lungo la strada mi sembrava buono per dormire. Vista la nostra insistenza alla fine ci ha lasciato entrare nella casa e noi abbiamo promesso di sistemarla un po’».
I ragazzi si organizzarono per rendere abitabile la loro “nuova casa”. Tapparono le finestre con del nylon e del nastro adesivo, per terra misero dei tappeti. L’acqua per lavarsi e cucinare qualcosa andavano a prenderla in un pollaio distante cinquecento metri. Il problema più grande rimaneva, d’inverno, quello del freddo.
«Dormivo con dieci coperte e mi alzavo tutto sudato ma con i piedi freddi. Per tanto tempo ho pensato che in Europa tutti dormivano con i piedi freddi».
Rimasero nel casolare per due anni e il proprietario non chiese mai un affitto. In paese tutti sapevano della loro situazione, ma una soluzione diversa in tutto quel periodo non venne fuori.
Naiaga è arrivato in Italia dal Senegal nel 1989. Nel Triangolo della Sedia, zona produttiva compresa tra i comuni di Manzano, San Giovanni al Natisone e Corno di Rosazzo, è giunto un po’ più tardi, dopo aver trascorso circa un anno a Cagliari. Il suo cammino di emigrante è per un tratto simile e quello di tanti altri per poi divaricarsi e assumere delle caratteristiche originali. Ha un primato che nessuno gli ha ancora riconosciuto e che lui, d’altra parte, non ci tiene a segnalare: è il primo imprenditore africano nell’industria delle sedie. Guida, in società con un friulano, un’azienda con cinque dipendenti che segue le fasi iniziali della filiera produttiva del Triangolo. Quando lo conobbi, nel 2000, aveva da poco cominciato quest’avventura e mi colpì per la determinazione con la quale perseguiva il suo obiettivo di “mettersi in proprio”.
Nella zona del Triangolo della sedia risultano attualmente attive circa 900 aziende che danno lavoro a 9mila addetti. Prima della grave crisi che ha colpito il settore negli ultimi due anni, le imprese erano molte di più, circa 1200, e gli addetti si aggiravano sui 14 mila. Viste le caratteristiche del comparto, costituito da 5 grandi gruppi e da un’infinità di aziende piccole e piccolissime, non è facile avere dati precisi. Le microaziende nascono e muoiono rapidamente, soprattutto di questi tempi. Ciononostante, secondo il sindacato Fillea-Cgil, gli stranieri sono stabilmente più di un quarto degli addetti. Rappresentano una realtà ormai radicata, ma poco integrata. Un’indagine commissionata un paio di anni fa dall’amministrazione comunale di Manzano per scandagliare la qualità della vita sul suo territorio, si concluse con una definizione perentoria. I curatori definirono questo un territorio «letteralmente dominato da una religione del lavoro». Per religione del lavoro si potrebbe intendere un atteggiamento culturale dove l’attaccamento al lavoro, alla produttività, è sentito come misura dell’accettazione sociale. In soldoni: più lavori, più sei. Non lavori, non sei. Nei fatti le cose non sono tuttavia così semplici e la storia di Naiaga e dei suoi problemi a trovare casa, stanno a dimostrarlo.
Max Mauro, da “La mia casa è dove sono felice. Storie di emigrati e immigrati”, 2005
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Foto di Sonia Simbolo

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