Mentre porgo la domanda mi sento come uno che si informa sulle condizioni del campo di grano quando la casa del contadino è stata spazzata via da un uragano che ha travolto anche gli abitanti. Mi mordo la lingua, ma ormai è fatta.
Bozidar non si scompone, ha accettato, spera per l’ultima volta, di ripercorrere gli ultimi quindici anni della sua vita e per lui questa domanda è uguale alle altre.
«Una mia collega è andata alla scuola dopo che era stata trasformata in caserma dai soldati della forza di pace. Le hanno detto di guardare in cortile. Lì, gettati alla rinfusa in mezzo alla neve, c’erano i libri della biblioteca assieme a vari materiali didattici. Ne ha recuperati alcuni, quelli messi meglio, ma i più erano ormai inservibili».
I libri della scuola, il liceo di Maglaj, cittadina di quindicimila abitanti a centoventi chilometri a nord di Sarajevo, erano un po’ anche i suoi. Per dodici anni in quell’istituto era stato docente di lettere.
«Ero il responsabile della biblioteca, nel corso di vari anni avevo raccolto circa quattordicimila volumi. Prima della guerra era probabilmente la più grande biblioteca scolastica della provincia».
Il destino seguito dai libri del liceo di Maglaj, dispersi alla rinfusa in un territorio estraneo a quello consueto, sembra lo stesso delle migliaia di bosniaci finiti in cinquanta stati del mondo, fuggiti dal loro paese in guerra, trasformati dall’oggi al domani in profughi, emigranti coatti, rifugiati, nuovi apolidi. È stato calcolato che in seguito alle guerre che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia circa cinque milioni di persone hanno cambiato indirizzo: più di un quinto della popolazione registrata nel paese nel 1990. Sono sfollati in altre zone del territorio del defunto stato federale oppure all’estero. Bozidar è uno di loro. Ha lasciato la Bosnia nel 1992, l’anno in cui in quella Repubblica tutto è cambiato, e dopo una peregrinazione lunga alcuni mesi è arrivato in Italia. Oggi vive con la moglie e il figlio in una casa di paese, acquistata attraverso un mutuo, a pochi chilometri da Udine.
La sua storia mi aiuta ad entrare nei gangli della guerra più vicina, temporalmente e geograficamente, a casa nostra dopo la Seconda Guerra Mondiale. È anche un modo per comprendere una delle ragioni alla base delle migrazioni moderne. In un mondo in squilibrio permanente sono sempre più numerosi coloro che fuggono da situazioni di guerra, di violenza istituzionalizzata, di paura.
I conflitti dell’ex Jugoslavia hanno provocato un’emorragia di persone verso l’estero. In Friuli Venezia Giulia, l’area in Europa occidentale più prossima al teatro del conflitto, i cittadini delle Repubbliche dell’ex Jugoslavia costituiscono quasi un terzo della popolazione straniera extracomunitaria, sono il gruppo più numeroso e questo è un tratto che distingue la fisionomia del fenomeno migratorio della regione rispetto al resto d’Italia. Fra di essi, sono in maggior numero coloro che provengono da Serbia, Montenegro e Kossovo, subito dietro vengono le comunità croata, bosniaca, macedone e, infine, quella slovena. Si tratta di circa 16 mila persone su di una popolazione straniera che conta circa 52 mila persone.
Nella primavera del 1992, anche chi in Bosnia non riusciva a concepire il conflitto etnico che stava lacerando la repubblica federale, dovette aprire gli occhi su di una realtà diversa. I segnali che la situazione stava degenerando erano più d’uno. Già a gennaio era stata proclamata una inedita “Repubblica del popolo serbo di Bosnia Herzegovina”. Come ricorda lo storico Joze Pirjevec nel suo saggio “Le guerre jugoslave 1991-1999” (Einaudi 2001, pp. 123-124), il leader dei serbi di Bosnia, lo psichiatra-poeta Radovan Karadzic, da tempo aveva espresso in un verso cupamente premonitore la sua aspirazione anti-borghese: «Assaliamo le città, per ammazzare le vipere». È l’indizio che conduce alla lettura che molti osservatori diedero della guerra di Bosnia: più che un conflitto interetnico, uno scontro premeditato tra città (centro di convivenza e cultura) e campagna (dove era più facile mitizzare la purezza etnica). Non fu forse così sempre e ovunque ma la storia del conflitto ha offerto molte conferme di tale fenomeno. L’esercito jugoslavo aveva in quel momento sul territorio della Bosnia più di metà del suo potenziale bellico, i musulmani e i croati stavano creando le rispettive milizie paramilitari. Mentre le tre componenti nazionali – serba, croata e musulmana, quest’ultima definita nei censimenti ufficiali anche come “bosniaca” – si avviavano verso un destino fratricida fomentato da dirigenti e leader politici senza scrupoli e da interessi internazionali, una maggioranza silenziosa insisteva nel desiderare una soluzione pacifica dei problemi. Bozidar faceva parte di questa maggioranza.
«Il sei aprile (giorno in cui la Comunità europea riconobbe l’indipendenza della Bosnia Herzegovina, con l’associazione di cui ero presidente organizzammo una manifestazione pacifista in un cinema. Vennero così tante persone che dopo un po’ dovemmo spostarci in strada e alla sera ci trovammo in circa ottomila persone. La guerra non ci serve, dicevamo. C’erano operai, studenti, persone di tutte le età. Ma i governanti delle tre etnie ormai la pensavano diversamente».
La vita, nella cittadina di Maglaj, non fu più la stessa. Il conflitto entrò nelle vite delle persone, scavando solchi tra le famiglie, i quartieri, i colleghi di lavoro.
«In Bosnia dagli anni sessanta in poi i bambini nati da matrimoni misti erano circa il trentacinque per cento, ma credo che nella mia scuola la percentuale superasse il cinquanta. Un giorno, una mia allieva mi disse che nel suo condominio non c’era nessuno di razza pura. Io difendevo con la forza delle parole questa complessità, ero contro la guerra, ogni forma di guerra, io stesso non posso che definirmi jugoslavo, mia moglie è di origine croata, io serba-bosniaca, ma chi deteneva il potere aveva un’altra idea. A un certo punto il clima divenne impossibile, ogni forma di dialogo impraticabile. Un consigliere comunale chiese il mio licenziamento perché, disse, “Non si può accettare che gente così insegni ai nostri figli”. Ma io parlavo di pace, loro di guerra. Venni minacciato più volte. Alla fine, fuggimmo, di notte, senza pensare che non avremmo più fatto ritorno».
Da alcune settimane le milizie serbo-bosniache avevano cominciato a bombardare Sarajevo. L’assedio di quella che era il luogo simbolo dell’incontro di culture della Jugoslavia sarebbe durato quattro anni.
«Il giorno dopo il primo bombardamento di Sarajevo, sulla lavagna della mia classe trovai una scritta: “Noi non vogliamo dividerci. Non vogliamo la guerra, vogliamo la pace”».