Pensieri

Altre madri

30.12.2023
Chiedo perdono, ma a vent’anni con le scarpe da tennis nuove e l’arroganza di chi sa che in quel punto esatto non passerà mai più, ho sognato anch’io un figlio maschio. Nel sogno era scuro di capelli e lo davo alla luce faticosamente, ché a vent’anni i drammi sono tutti desiderabili, il dolore è un belletto vitale che regala fascino, e le lacrime lo spalmano sulle guance rendendoti fatale come una Turandot.
Nella mia testa quel parto scenografico è avvenuto mille volte, e la sofferenza era una forma di eleganza, la sfumatura più elevata di una maternità verace.
Non c’era un uomo a far da padre, non ne serve uno per partorire con dolore.
Nel mondo in frantumi dei miei vent’anni, l’unico padre pronunciabile era il Padre Nostro, pregato con la fiducia incosciente di chi ancora non si è sentito chiedere niente da sacrificare.
Nel mondo in frantumi dei miei vent’anni, io credevo di essere nata con una sola cosa intera per le mani: l’istinto materno, la vocazione all’essere ventre, come le brocche d’olio in magazzino.
Nel mondo in frantumi dei miei vent’anni, non dovevo cercare alcun perché all’esistere, mi sarebbe bastato trovare un per chi. Sposa di qualcuno, madre di chiunque, io non sapevo cosa fosse la vocazione ad essere me.
Ma quando i vent’anni passano, un figlio smette di essere materiale da sogno, e diventa un atto sovversivo. Dopo i trent’anni siamo tutti dei sopravvissuti, e i figli dei sopravvissuti sono gravidanze a rischio anche quando non li fai, anche quando li pensi e basta, perché non c’è pensiero che possa ancora dirsi innocente. Quando si comprende che orizzonte è solo un altro nome per chiamare il limite, ogni possibilità diventa rischiosa tensione all’utopia.
A quello stadio, se ancora figlio deve essere, non può più essere maschio.
Sarà femmina, e non avrà occhi facili. Vorrà sapere.
Seduta sulle mie ginocchia, mi chiederà chi è e chi siamo, e le mie risposte non uccideranno le sue domande. Perché non le venga la malattia dei figli unici, credersi la sola misura di se stessi, partorirò per lei i ricordi del futuro e le profezie del passato, in un tempo senza scarti, dove poter già essere quel che saremo. Mia figlia diventerà ricordo prima di essere progetto, e accoglierà il presente come fosse un seme ricevuto.
Non si addormenterà con i cartoni animati, no. Io le canterò una ninna nanna per stare sveglia, una ninna nanna per non chiudere gli occhi, perché abbiamo già dormito tanto e troppo, mentre altri plasmavano i nostri sogni in incubi di realtà.
Michela Murgia, da “Altre madri”
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Nell’immagine: Henri Matisse, “Madre e figlio”, 1950

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