Affabulazioni

Il ritorno del prigioniero

30.12.2023
“Per cominciare: la casa cui faceva ritorno non era più la sua; né sua moglie era più la sua; né i suoi figli erano più i suoi.
L’auto lo depositò davanti a una casa a un piano, dipinta di bianco e circondata da un grande giardino. Non aveva mai messo piede prima in questo quartiere alla periferia della città.
Sulla soglia c’era una donna, le vene del collo le pulsavano per il nervosismo. Il sorriso finto sulle sue labbra nell’accogliere colui che tornava non riuscì a dissimulare il cipiglio della fronte aggrottata. Quando l’uomo mise piede in casa, si precipitò verso di lui, poi, all’improvviso, come trattenuta da una forza invisibile, si fermò di colpo, contentandosi di tendergli la mano.
I bambini erano rimasti immobili, seduti sui divani del salone. Il loro imbarazzo era palese, come se fossero costretti a comportarsi bene e a mostrarsi educati durante la visita di un ospite sconosciuto che presto se ne sarebbe andato. Tre li conosceva. Al momento però doveva fare uno sforzo per ricordarne i nomi e sapere chi era chi. Quanto al quarto, il più piccolo, non l’aveva mai visto: non era ancora nato dieci anni prima, quando era andato via, lasciando sua moglie incinta.
Le presentazioni cominciarono con domande di ordine generale da parte sua e con risposte evasive da parte loro. Terminarono in un silenzio imbarazzato e pesante. Senza osare guardarla negli occhi, domandò alla moglie:
«Quando avete comprato la casa?»
La voce della donna cambiò, si fece più grave:
«Non l’abbiamo comprata bell’e fatta. L’ho fatta costruire pezzo per pezzo. Avevo venduto la casa vecchia e preso un prestito in banca. Ho sorvegliato di persona i lavori tutti i giorni. Sono stati momenti difficili, con quattro bambini da tirare su».
«Hai fatto un lavoro magnifico», disse lui alzando gli occhi verso il soffitto.
«Ho pagato l’ultima tratta l’anno scorso.»
«Non ti avrei mai creduta capace di occuparti di cose concrete. La donna che conoscevo contava su di me per tutto. Quando pensavo a voi, laggiù, quest’idea mi tormentava.»
«Sono stati momenti difficili. E poi, dieci anni non sono pochi.»
«No, in effetti.»
«Col tempo, uno cambia…»
«Sì, effettivamente.»
«Vuoi vedere la casa?» disse lei con entusiasmo.
«Come vuoi.»
I mobili della camera da letto non erano cambiati. Era l’unico ricordo della loro vita passata rimasto intatto – e ne provò un sentimento di gratitudine verso di lei. L’armadio era lì, con le sue quattro ante, e le sue decorazioni a fiori e uccelli. Anche la toeletta con lo specchio quadrato era lì, quello specchio in cui non riconobbe i tratti che vi aveva visto per l’ultima volta dieci anni prima. Adesso vedeva un volto smagrito e ossuto, una testa canuta, delle spalle spioventi… La sua vera età era stata appesantita da falsi anni supplementari.
Al momento di coricarsi, scoprì lo stesso letto che, un tempo, aveva ospitato i loro sogni insieme. Quando era prigioniero, aveva spesso sognato l’attimo in cui vi si sarebbe infilato di nuovo. Ma l’uomo e la donna erano divenuti estranei. Badò a non sfiorare il corpo allungato al suo fianco nel grande letto matrimoniale; aveva notato che lei si teneva discosta, rannicchiata su se stessa. Fissò il soffitto illuminato dalla luce della luna che penetrava dalla finestra. I suoi pensieri presero a viaggiare a migliaia di chilometri da lì, attraversando le frontiere, fino al campo di detenzione. Vide i compagni che erano rimasti laggiù, li immaginò immersi in un sonno profondo per compensare la fatica dello star svegli durante il giorno. Rivide i loro sorrisi furtivi nel fantasticare del ritorno a casa.
Ricordò il cigolio delle massicce porte di ferro, l’ordine urlato dei guardiani: «Sveglia». Strappati ai loro sogni, vengono condotti a suon di bastone in cortile e lui cerca di farsi piccolo in mezzo alla lunga fila di prigionieri. La voce monotona di un ufficiale senza volto martella: «Il vostro Paese vi ha abbandonato. Resterete qui, con noi, fino a marcire». I raggi del sole si fanno sempre più cocenti. Le braccia e le gambe sono come paralizzate, la bocca riarsa. Non ne può più: cade a terra. I guardiani si accaniscono su di lui tirandolo per le braccia, così forte che per un attimo crede che si strapperanno. La porta di una piccola cella sepolcrale si apre. Lo gettano dentro. Lo scatto della porta che si richiude gli rimbomba a lungo nel cranio. Si accorge che l’altezza della cella lo costringe a chinarsi per sedersi.
Buthaina Al-Nassiri, in Inaam Kachachi, “Parole di donne irachene”, 2003

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