Affabulazioni

Il giovedì, la tigre, il vescovo e il signor Ambarabà-Ciccì-Coccò

10.01.2024
Se la domenica era il giorno più noioso, in cambio il giovedì era il più divertente. Tutti i giovedì, infatti, la zia Despina riceveva. Apriva la sala grande che restava chiusa gli altri giorni; nessuno aveva il permesso di entrarvi. Così il giovedì potevamo vedere la tigre che era lì, impagliata in una vetrina. Quando eravamo piccole la zia Despina, per farci paura, ci diceva: «Se fate le cattive vi chiudo nella vetrina con la tigre!»
Allora eravamo piccole, avevamo paura, ma adesso che la supplicavamo di aprirci la vetrina per poterla toccare e vedere da vicino i suoi strani occhi (ne aveva uno nero e l’altro tutto azzurro), questo piacere non ce lo avrebbe fatto di certo!
Lei diceva che gli occhi della tigre erano di vetro. Quando l’avevano impagliata si erano sbagliati e non glieli avevano messi uguali. Diceva così perché non sapeva la storia stupenda che ci raccontava Nikos.
C’era una volta una tigre che viveva nella foresta (la tigre della vetrina, naturalmente) e che aveva un occhio nero e uno azzurro. Era nata così. Un giorno teneva aperto quello azzurro e quello nero dormiva, il giorno dopo usava il nero e l’azzurro era chiuso. Quando usava l’azzurro era mansueta come un gattino: passeggiava fra gli uomini, li aiutava e giocava con i bambini e gli animaletti del bosco. Ma quando apriva l’occhio nero diventava feroce e distruggeva il lavoro dell’uomo; gli animali più piccoli correvano a nascondersi nelle loro tane quando la sentivano arrivare.
Nikos, quando eravamo in campagna d’estate, raccontava un mucchio di avventure della tigre, non solamente a noi, ma anche a tutti i bambini del paese.
Appena sveglia mi ricordai che era giovedì perché Myrto mi disse:
– Fammi ricordare una delle mie «vivacità».
Myrto era «l’orgoglio della zia Despina». Era così che Nikos la chiamava per prenderla in giro. Il giovedì, quando arrivavano le visite, la zia ci chiamava nel salone e faceva dire a Myrto le sue «vivacità» (noi le avevamo chiamate così).
– Allora, me la fai ricordare una «vivacità»? ripeté Myrto.
– Di’ loro che quando avevi quattro anni hai domandato al vescovo se si faceva la pipì addosso quando era piccolo.
– Sei matta? Proprio oggi che viene il vescovo!
– Allora di’ loro ciò che hai risposto domenica al nonno quando ti ha domandato se volevi ancora delle noci o una storia e hai risposto: «Delle noci, naturalmente! Le storie non si mangiano!»
– Ma è una «vivacità»? – chiese Myrto stupita.
– Penso proprio di sì, perché ho sentito il nonno che lo raccontava alla zia Despina e lei ha detto: «Che vivacità!»
– Va bene, ma una sola non basta, – disse Myrto.
– Ecco, ho trovato. Ti ricordi quando papà si è rotto la gamba e tu gli hai chiesto: «E se muori, papà, dove troveremo i soldi per mangiare?»
– Grazie per avermelo fatto ricordare, Melia, disse Myrto con un tono, ma con un tono…
Era vero! Mi ero dimenticata di dire che mi chiamo Melia, forse perché mi vergognavo un po’ del mio nome. Tutti mi chiamavano Melia, però il mio vero nome è Melissa. Il nonno aveva voluto che mi chiamassero così perché era il nome della nonna. A casa avevamo un album di fotografie. In una c’era un bebè con la testa a uovo e c’era scritto sotto: «La regina Melissa». Sono io. Il nonno diceva che Melissa era una regina dell’antichità. Ma oltre al nonno sembrava che nessuno la conoscesse. Perché, appena dicevo che mi chiamavo Melissa, tutti, grandi e piccoli, mi canzonavano: «Melissa, Melissa, hai miele di melassa?» La mamma entrò in camera nostra e, vedendoci ancora in camicia da notte, si mise a gridare:
– Il nonno vi sta aspettando per la lezione e voi siete ancora in camicia! Finché non andrete a scuola non diventerete mai delle bambine giudiziose!
– Come se fossimo noi che non ci vogliamo andare, – disse Myrto mentre ci lavavamo in fretta e furia.
Scendemmo le scale a quattro a quattro per andare dal nonno che ci stava aspettando e Myrto borbottava il suo settepersette. Saltò uno scalino e inciampò. Le gridai:
– Il nonno aveva ragione. Hai appena imparato le tabelline e credi già di poter volare.
– Che scemenza! – rispose offesa. – Guardati te: non sai neppure quanti stami ha il fiore del melo.
– Sei due classi piu avanti di me, è logico che tu lo sappia.
Per fortuna il nonno ci chiamò perché se no avremmo litigato per davvero.
Myrto era fatta così! Appena aveva imparato qualcosa di nuovo sembrava un pavone dalle arie che si dava. Soprattutto da quando studiava le piante, dava noia a tutti. Anche a Stamatina domandava: «Lo sai quanti stami ci sono nel fiore del melo e del pero? »
Ma lei, poveretta, non sapeva neanche scrivere il suo nome.
Quel pomeriggio eravamo in camera nostra aspettando che Stamatina ci chiamasse per scendere in sala. Il giovedì precedente non ci eravamo state perché eravamo malate ed erano perciò ben quindici giorni che non vedevamo la tigre.
Stamatina ci aveva promesso che, quando avrebbe fatto le pulizie di fino, prima della partenza per le vacanze, avrebbe trovato il modo di farsi dare dalla zia Despina la chiave della vetrina per spolverarla e allora ci avrebbe chiamato per guardare la tigre da vicino. Chissà cosa avremmo avuto da raccontare ai bambini del paese dopo averla toccata con le nostre mani e aver visto se i suoi occhi erano veri o di vetro!
Stamatina entrò in camera nostra, arrabbiatissima.
– Perché mi ci manda, – borbottava, – se tanto ogni volta rifiuta di scendere.
Il giovedì la zia Despina mandava sempre Stamatina a dire al nonno di venire in sala a salutare gli ospiti. Ma il nonno non ci veniva mai.
– Proprio oggi che ci sarà il vecchio caprone! – continuò Stamatina. – Vostro nonno non lo può vedere neanche dipinto.
Trasalimmo.
– Che vecchio caprone?
– Il vescovo, – disse Stamatina lanciandoci uno sguardo severo. – E adesso andate a raccontarlo alla signora che l’ho chiamato così!
Allora Myrto diventò rossa di rabbia.
– Lo sai benissimo che non facciamo la spia.
– Va be’, va be’! Lo dicevo per scherzo.
Poi disfece la treccia di Myrto e si mise a pettinarla. Myrto aveva i capelli biondi e gli occhi verdi. Era molto bella. Tutti lo dicevano. Assomigliava alla zia Despina da giovane, perciò era la sua cocca. Quando la zia Despina fosse morta, le avrebbe lasciato la casa dove abitavamo, che era di sua proprietà. lo avevo i capelli neri e ricci e assomigliavo al papà. Ma lui non aveva niente da lasciarmi. Tranne la sua borsa, che era in cuoio lavorato con sopra un cervo. Myrto diceva che saremmo vissute sempre insieme. Cosa ne avrebbe fatto da sola di una casa così grande! E io le dicevo:
– Pensa un po’ quando la casa sarà tutta nostra. Apriremo la vetrina tutte le volte che la tigre userà il suo occhio azzurro e la lasceremo girare quanto vorrà.
Quando scendemmo, la scala era piena di gente. Il vescovo era seduto a un tavolo con tre signore e giocava a carte. La zia Despina ci fece segno di andargli a baciare la mano. Aspettammo un pochino perché stava distribuendo le carte. Poi ci tese la mano perché la baciassimo, senza neanche degnarci di uno sguardo. La sua mano era fredda e molliccia come la mollica del pane.
Dopo, alla svelta, ci infilammo dietro la vetrina e stavolta nessuno pensò di chiedere a Myrto di dire le sue «vivacità» perché gli ospiti stavano parlando tutti insieme. E gridavano così forte che a un certo momento ci sembrò che l’occhio nero della tigre si svegliasse e li stesse guardando con aria feroce.
Era strano osservare gli ospiti attraverso il vetro della vetrina. Il prefetto, che era piccolo e magro, sembrava ora alto, altissimo, ora piccolo e grassottello.
Diceva che la patria era in pericolo e che il re non ce l’avrebbe fatta a salvarla da solo. Poi diceva che sarebbero arrivati i bolscevichi. Allora, noi, i bambini, saremmo stati strappati ai nostri genitori e il vescovo, quanto a lui, sarebbe stato impiccato in piazza.
La moglie del prefetto aveva dei guanti di pelle bianca lunghi fino al gomito e non se li toglieva mai. Agitava le mani dicendo con una voce flebile e come una cantilena:
– Che orroooore! Che orroooore!
– Guarda, – dissi a Myrto, – guarda da quest’angolo attraverso il vetro e vedrai che le sue braccia sembrano rami.
Myrto si raggomitolò contro di me per vedere.
Nello stesso momento qualcuno si mise a parlare con una voce così forte da far tremare la vetrina, e ci sembrò che la tigre si fosse mossa. Era il signor Ambarabà-Ciccì-Coccò. Non era il suo vero nome, eravamo noi che l’avevamo battezzato così. Era il console d’Olanda sulla nostra isola e a ciascuna delle sue frasi aveva sempre bisogno di aggiungere: «Allora sapete, ad Amsterdam…», anche se non c’era mai stato. Amsterdam poteva benissimo essere la capitale dell’Olanda ma a noi faceva venire in mente la filastrocca senza capo né coda che cantavamo per sapere chi «sta sotto» quando si giocava a nascondino:
Ambarabà-Ciccì-Coccò
tre civette sul comò.
– È di un Hitler, – gridava il signor Ambarabà-Ciccì-Coccò, – è di un Hitler che ha bisogno la Grecia!
Allora si sentì la voce calma della mamma:
– Oh! Non di un Hitler, via, signor console!
Il papà fece cenno alla mamma di tacere e la zia Despina, in fretta e furia, cominciò a offrire caffè e pasticcini. Uscimmo dal nostro nascondiglio per vedere se per i pasticcini era stato tirato fuori il servizio bello con su quegli strani uccelli variopinti. Ma appena papà ci vide, ci disse di tornare in camera nostra. Feci in tempo a vedere che le mani gli tremavano come quando era molto arrabbiato.
Non andammo in camera nostra, ma ci precipitammo dal nonno.
Il nonno era arrampicato sull’ultimo gradino della scaletta che gli serviva per arrivare agli scaffali più alti della biblioteca e stava sfogliando un «antico».
– Nonno, impiccheranno il vescovo in piazza,disse Myrto, – e il vento gli farà svolazzare la sottana!
– Nonno, – dissi a mia volta, – noi, i bambini, ci rapiranno e forse ci getteranno in un fosso pieno di calce e…
Il nonno non mi lasciò finire e richiuse rabbiosamente il suo «antico».
– Che stupidaggini siete venute a raccontarmi!
– Non noi, – disse Myrto, – è il signor prefetto. Ha anche detto che tutto questo succederà quando arriveranno i bolscevichi.
Allora il nonno si infuriò; non l’avevamo mai visto in quello stato. Scese dalla scaletta e ci si avvicinò. Poi disse con tono molto serio:
– Sono storie da matti, anche se è il prefetto che le racconta! Non ne hanno abbastanza di un re, vogliono qualcosa di peggio.
– Che cos’è peggio, nonno?
Allora il nonno ci raccontò dei greci antichi che avevano un capo chiamato Pericle (to’! come il direttore di papà!) ed erano una democrazia in cui tutti vivevano bene ed erano felici. Per questa ragione quell’epoca è chiamata il secolo d’oro di Pericle. Bene, anche noi eravamo una democrazia ed ecco che ora abbiamo un re. Ma il peggio di tutto è la dittatura… Il nonno avrebbe aggiunto molte altre cose, ma noi avevamo sonno e sbadigliavamo talmente che ci disse:
– Adesso andate svelte a letto e fate dei bei sogni!
Mentre ci lavavamo i denti, Myrto disse che bisognava sfregarci la bocca col sapone perché avevamo baciato la mano del vescovo. Poi facemmo «snif» annusandoci reciprocamente e ci domandammo: «Ho ancora odore di vescovo?»
Dopo esserci infilate sotto le coperte, Myrto disse:
– Il nonno ha un bel parlare del suo Pericle, a me piacciono i re. La zia Despina ha detto che se non ci fosse stato il re Costantino la Grecia sarebbe ancora schiava dei turchi.
– Sei matta? – risposi furibonda. – Il nonno ha detto che se non ci fosse stato Venizelos saremmo ancora sotto la dominazione turca.
– Nossignora, è così: se non ci fosse stato il re!- ripeté Myrto testarda.
– Nikos ha detto che tutti i re sono dei cretini.
– Quelli delle favole!
– No, i veri!
– Sei piccola e non capisci niente!
– E tu sei un’imbrogliona, un’imbrogliona e un’imbrogliona, -le gridai fuori di me. – L’anno scorso eri venizelista, ritagliavi le foto di Venizelos e dicevi persino che ti sarebbe piaciuto che fosse stato tuo nonno.
– Be’, e allora? – gridò Myrto. – Adesso preferisco i re!
– Hai dimenticato, – continuai, – che quando eravamo piccole Venizelos venne nella nostra isola per inaugurare la Posta, tese la mano al nonno e ci accarezzò la testa. E dopo, se ti ricordi, i nostri capelli avevano un buon profumo di acqua di colonia… e non odore di vescovo.
– Bella roba! – disse Myrto con l’aria di prendermi in giro. – Il re, lui, sono sicura che si lava con l’acqua di rosa e di gelsomino e ha una corona tutta d’oro!
In quel momento arrivò Stamatina per chiudere le persiane; le domandammo:
– Stamatina, tu per chi tieni? Per il re o per Venizelos?
– Tengo per le mie ciabatte! – rispose. – Belle cose da dire prima di addormentarsi!
Poi chiuse rumorosamente le finestre e aggiunse:
– Del resto non chiederanno certo il mio parere. Sotto un governo o sotto un altro, sarò sempre solo una poveretta che non sa né leggere né scrivere.
«Tutto ciò è molto complicato, veramente incomprensibile», pensai, mentre Stamatina si allontanava.
Alki Zei, da “La tigre in vetrina”, 1963 – Traduzione di Marisa Aboaf Lorenzi

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