Non potrò mai essere antisemita perché a diciott’anni ho letto “Se questo è un uomo” di Primo Levi. L’ho letto, come molti libri in quell’età, imbattendomi in esso per caso, nella biblioteca della mia città natale, l’amata Natàca degli “Anni perduti” di Vitaliano Brancati.
Era una biblioteca gestita da invalidi. Nel senso clinico del termine. Invalidi civili da L. 482, lista privilegiata d’assunzione, composta da quelli che in altri tempi sarebbero stati crudelmente buttati giù dalla rupe Tarpea, ma che una soccorrevole legge del 1968, dovuta al cattolico evergetismo (termine arcaico bellissimo, letto in un libro di storia romana, a proposito dell’Institutio Alimentaria di Traiano che sta per «filantropia pubblica», diremo anche «assistenza sociale») voleva assunti nella Pubblica Amministrazione: ipovedenti, storpi, sordomuti ecc.
Parlavano esclusivamente in un dialetto arcaico, remoto, cavernoso, i miei invalidi.
Al banco accettazione e consegna stava la deliziosa signorina Miccichè, ipovedente, non tanto da impedirle di leggere, ma solo se portava la scheda sotto il bulbo oculare che metteva a contatto di carta, sollevandosi vezzosi occhiali sberluccicanti dicono a Milano e con la montatura svirgolata in alto come quella di Marilyn in alcune foto dei favolosi Sessanta.
Come leggevo allora? Per triangolazioni fortuite, per carambole occasionali, per rimandi di citazioni infratestuali o a piè di pagina in altri testi. Come sempre ho seguitato a fare: da lettore rabdomantico, di chi ha il fiuto ma non sempre il fiato, come diceva il conterraneo critico letterario Borgese. Ero alle prime letture adulte, quelle che si intentano senza averne le forze intellettuali, per puro narcisismo mentale o per ragioni di palestra «culturista» vanagloriosa. Per farsi i bicipiti. Avevo anche letto da qualche parte che Dostoevskij lo devi leggere a sedici anni, anche senza capirlo, altrimenti non combinerai nulla nella vita dello spirito. E infatti: non lo feci, ed eccomi qui a pastrugnare sui social.
Avevo letto dunque Gramsci che, in “Letteratura e vita nazionale”, dibatteva in una nota questo “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica” di un mai sentito fino ad allora Mario Praz. Mi punse vaghezza di leggerlo. Ero giovane e senza risorse, frequentavo la biblioteca comunale per trovare un po’ di narcotico alla mia disperazione sociale.
Mi reco alla «Bellini» di via Manzoni. Al banco della signorina Miccichè redigo e consegno la richiesta. La signorina Miccichè appiccica la carta alla pupilla. E sentenzia subito: «Chistu non c’è. Su puttànu!» (Questo non c’è. L’hanno rubato). Poi chiama l’addetto alla distribuzione, strillando e sovrastando con i sopracuti il cafarnao dei lettori delle medie intenti a chiacchierare invece che a condurre le loro ricerche sulla fottutissima mela e i bruchi. «Signor Sapuppooooo!». Dal fondo sala si vede avanzare la figura sbilenca e contorta dell’evergetico sig. Sapuppo – una mano affisa (offesa) stretta a pugno sul ventre –, stirare un piede di traverso, appoggiarlo a terra per fare leva al busto che si inarca e poi scatta in avanti, e compiere un passo. E così per tutti gli altri fino al banco. Penosamente. Uno strazio. «Può darsi che chi se l’è portato l’abbia restituito di nascosto. Cu sapi? (non è detto)», mi fa la signorina Miccichè. Poi rivolta a Sapuppo. «S’addunassi (vada a vedere). Accumpagnassi il caruso allo scaffale».
Compiamo il tragitto verso gli scaffali della grande sala lentamente. Il signor Sapuppo ansima per lo sforzo o per la cammurria (fastidio) di cercare il libro. Lo seguo rallentando il passo. Giunti allo scaffale alziamo lo sguardo sulle etichette cerchiamo la “Pr” di Praz. È a media altezza, ma occorre la scaletta di mezza dozzina di gradini con l’asta verticale sormontata sull’ultimo onde sorreggersi. La accosto agli scaffali e faccio per salire. Vengo agguantato per il maglione dall’evergetico: «Aràssiti, su caschi e t’asruppii ci cuppu iù (scòstati, se cadi e ti fai male la responsabilità è mia).» E contro ogni legge fisica e logica, con molto sforzo, facendo leva sul bastone in cima, intenta l’ascesa al paradiso libresco. Arrivato all’ultimo gradino si protende ancor più sulla “Pa”, “Po”, “Pi”, giunto alla “Pr”, non leggendo alcun Praz scamina (rovista), spazientito, s’allunga, compie un ulteriore sforzo, agguanta un libro che è segnato sul dorso con un “Pr”, che gli cade di mano tuttavia. Lo raccolgo a terra, è “Se questo è un uomo” di Levi PRimo, ritenuto il cognome, e così catalogato in una terra dove la gente dopotutto si chiama Alfio, Carmelo, Orazio, e nessuno mai, spicciamente, Primo, o Secondo o Settimio. E dei Levi nulla si sa, perché tra cattolici antichi si legge solo il Vangelo e non certo il Levitico.
Il signor Sapuppo sentenziò: «Chissu c’è, t’accuntenti? (Quello c’è, ti va bene?)». Mi andò bene. Avevo sentito parlare di quel libro. Lo lessi avidamente quella notte stessa, rannicchiato nel mio lampolet (quei letti che si aprivano dai mobili). Mi commosse. Cercai il sequel della “Tregua” appena tornato tra gli evergetici. In quei libri di Primo Levi, cui ero giunto per sbaglio – se non quella sensuosamente e torbidamente intesa da Praz –, c’era dopotutto tanta dolente “carne” umana, e molta “morte” e molto “diavolo” sicuramente.
Alfio Squillaci, da “Controsicilia. A morsi e a baci”, 2023