Pensieri

Dio noi confidiamo

12.01.2024
“Ci troviamo in un momento della storia in cui, guardandoci intorno nel pianeta, sembra che Dio – o, meglio, la religione formale – abbia ricominciato a insistere per occupare un ruolo centrale nella vita pubblica. Non potrebbe esserci momento più appropriato per approfondire il tema dei rapporti tra politica e religioni.
Non sono né un teologo per formazione né un professionista della politica, quindi non posso vantare alcuna competenza. Tuttavia, mi sono trovato, scrivendo narrativa, incapace di evitare le questioni politiche; la distanza tra la persona e gli affari di Stato è ormai così piccola che non sembra più possibile scrivere romanzi che ignorino la sfera pubblica. A volte si invidia a Jane Austen la sua capacità di ignorare le guerre napoleoniche. Oggi, con la televisione che porta immagini da tutto il mondo in ogni casa, sembra in un qualche modo falso cercare di escludere il rumore degli spari, delle urla, del pianto, per tappare le nostre orecchie contro l’inesorabile ticchettio del ‘Doomsday Clock’. Per quanto riguarda la religione, la mia opera, che in gran parte si concentra sull’India e il Pakistan, mi ha costretto ad affrontare la questione della fede religiosa. Anche la forma della mia scrittura ne risente. Se si vuole descrivere onestamente la realtà come viene vissuta dalle persone religiose, per le quali Dio non è un simbolo ma un fatto quotidiano, allora le convenzioni di ciò che viene chiamato realismo sono del tutto inadeguate. Il razionalismo di quella forma arriva a sembrare giudizio, un’invalidazione della fede religiosa dei personaggi descritti. Bisogna dunque creare una forma che permetta al miracoloso e al mondano di coesistere allo stesso livello, nello stesso ordine di eventi. Ho trovato questo essenziale anche se io stesso non sono un uomo religioso.
Il mio rapporto con il credo religioso formale è stato alquanto contrastato. Sono stato cresciuto in una famiglia musulmana indiana, ma sebbene entrambi i miei genitori fossero credenti, nessuno dei due era insistente o dottrinario. Due o tre volte l’anno, ai grandi festival dell’Eid “IN GOD WE TRUST”, mi svegliavo per trovare nuovi vestiti ai piedi del mio letto, mi vestivo e andavo con mio padre alla grande fanciulla di preghiera fuori dalla Moschea del Venerdì a Bombay, e mi alzo e scendi con la moltitudine, borbottando attraverso l’arabo incompreso proprio come fanno o facevano con il latino i bambini cattolici. Il resto dell’anno la religione passò in secondo piano. Avevo un’ayah (tata) cristiana, per la quale a Natale si metteva un albero e si cantava canti sul bambino Gesù senza sentirsi minimamente a disagio. I miei amici erano indù, sikh, parsi e niente di tutto questo mi sembrava particolarmente importante.
Dio, Satana, il Paradiso e l’Inferno svanirono tutti un giorno nel mio quindicesimo anno, quando persi improvvisamente la fede. Lo ricordo vividamente. A quel tempo ero a scuola in Inghilterra. Il momento del risveglio avvenne, infatti, durante una lezione di latino, e dopo, per provare il mio ritrovato ateismo, mi comprai un panino al prosciutto piuttosto insapore, e così mangiai per la prima volta della carne proibita del maiale. Nessun fulmine è arrivato per colpirmi. Ricordo di aver sentito che la mia sopravvivenza confermava la correttezza della mia nuova posizione. Mi sono leggermente pentito della perdita di Paradise, però. Il paradiso islamico, almeno per come ero arrivato a concepirlo, mi era sembrato molto attraente. Mi aspettavo di ricevere, per mio personale piacere, quattro bellissimi spiriti femminili, o uri, non toccati dall’uomo o dal djinn. Le gioie del giardino profumato; sembrava un peccato doverli rinunciare.
Da quel giorno ad oggi ho pensato a me stesso come una persona del tutto laica, e sono stato attratto dalle grandi tradizioni del radicalismo laico: in politica, il socialismo; nelle arti, nel modernismo e nella sua progenie, che sono state le forze trainanti di gran parte della storia del ventesimo secolo. Ma forse scrivo, in parte, per riempire quella camera vuota di Dio con altri sogni. Perché, dopotutto, è una stanza in cui sognare.
Il sogno fa parte della nostra stessa essenza. Dato il dono dell’autocoscienza, possiamo sognare versioni di noi stessi, nuovi sé per vecchi. Sia nella veglia che nel sonno, la nostra risposta al mondo è essenzialmente fantasiosa: cioè, la creazione di immagini.
Salman Rushdie, “Dio noi confidiamo”, da “Imaginary Homelands: Essays and Criticism 1981-1991” – Traduzione di Pina Piccolo

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