La poesia insegna a vivere, il che, beninteso, significa imparare a morire. È forse ciò che ci rende invulnerabili, dal momento che non illumina il cammino, ma i pericoli che lo impreziosiscono. Può essere un vento innocente arricchito da fragranze di tempi andati, e persino una pietra inconfondibile sulla collina. Formula rituale per approssimarsi alle origini, scrittura cifrata dell’avvenire, traccia elusiva di un presente effusivo. Comunque sia, segnale per le creature immaginarie che vagano insonni nella geografia di ciascuno.
Voglio ricordare qui ciò che venni a sapere a proposito dell’albero per bocca di uno stregone della pianura chaqueña. Gli domandai il come e il perché di tanta sapienza. Rispose servendosi della via che percorrono i poeti. Non sapeva cosa fosse una metafora, ma la praticava con discrezione, senza suscitare sospetti con il silenzio tipico degli iniziati. Era stato molte volte nella boscaglia a cercare quello che non si sa e in una di quelle occasioni era crollato addosso un enorme albero, che lo aveva tenuto stretto un giorno e una notte. Dissipò la mia angoscia eccessiva con parole che non dimenticherò.
– L’albero era una pianta dei lunghi capelli, ovvero una donna, che si alzò in piedi e scomparve nella boscaglia. Dall’ora sono lo stesso ma completamente diverso.Arrivai in città portando con me la pietra trovata sulla collina, l’immagine dell’albero e il respiro di un cavallo, senza sapere che molto prima Felisberto Hermández aveva esplorato un territorio simile, che si trasforma quando la luna ne illumina gli alberi, ovvero quando un essere capace di parola lo trasfigura. […]
E la poesia? Alcuni sostengono che, come tutte le cose preziose, è inutile. Altre le attribuiscono il prestigio dell’alambicco, e così distillano parole logore, o le rinnovano, in un processo comunicativo che inghiotte colui che la notte vacilla e di giorno festeggia.
Ho conosciuto un tale che nulla sapeva di queste faccende, eppure viveva come se le conoscesse a memoria. A modo suo era un mago: amministrava il silenzio di cui le parole hanno bisogno per respirare a loro agio; anni dopo imparò a eludere la fretta delle definizioni che non compromettono e, quando si ritrovò sulle sponde di ciò che è fondamentale, preferì l’allusione.
Gli toccò un paese come un altro, ma lui lo rese unico. Un giorno uccise un uccello. Quando andò a raccoglierlo, il vento di un pomeriggio molto nuvoloso gli agitava già le piume. Un’altra volta si imbatté in un leone, che se lo mangiò. Uscì dal lucernaio invisibile dei leoni e vide che la selva e la città erano diverse ma ugualmente belle. Aveva scordato numerose parole, ma gliene restavano abbastanza per ricordare gli antenati e aspettare il futuro insieme ad altri uomini, selvatici come lui, alcuni con cravatta e cappello, apri leggermente nervosi, tutti con una storia commovente. Un giorno quel tipo cerco di mettermi il capestro. Non glielo permisi. Allora mi fece strada in una lunga fila di individui che attendevano il proprio turno sul rogo, senza alcun desiderio di mutare un destino che giudicavano esemplare. Toccai la pietra che portava in tasca e cercare di immaginare luoghi dove non ce n’è. Impresa impossibile. Abbondano ovunque quei residui di mondi fosforescenti, simili a reliquie di popolazioni oniriche, maneggiate da molte mani salvo quello del potente. Il tipo, prima di entrare nel fuoco, mi sorrise come un vecchio amico.
– Ora tocca a lei – mi lanciò con indefinibile soddisfazione. E poi mi avverti: – Da lì sì che nessuno esce vivo.
Lui non sapeva che stavo sognando, ma io sì, e mi svegliai con l’orologio fermo a mezzanotte.