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Storia di una fotografia

15.01.2024
Una fotografia ha una vita propria. Le informazioni che porta con sé possono prescindere anche dalla consapevolezza del suo autore. Il senso di un’immagine è negli occhi di chi la guarda.
Non sono uno storico della fotografia, ma ci sono esempi famosi a riguardo. Nel 1968, Edward Adams vinse il premio Pulitzer scattando una foto al generale sud-vietnamita Nguyễn Ngọc Loan mentre sparava alla testa di un prigioniero vietcong con le mani legate. Un’immagine di una violenza inaudita che alimentò la protesta contro la guerra del Vietnam in tutto il mondo. Il suo autore pensava esattamente l’opposto. Per Adams quell’assassino era un eroe che combatteva per una causa giusta e aveva il diritto di sparare a un nemico che non meritava rispetto perché non indossava una divisa. Leggendo le sue parole, possiamo immaginarlo mentre si congratula col boia e lo ringrazia per avergli lasciato fare una foto che sapeva di poter vendere bene (tra gli inviati di guerra non c’è limite alla spregevolezza).
La storia che voglio raccontare è quella di una foto scattata il 30 settembre 1993, durante l’assedio di Sarajevo, mentre cadevano granate di mortaio sul centro della città, sparate dalle postazioni serbo-bosniache.
Pochi attimi prima ne avevo scattata un’altra, che ebbe più opportunità di essere conosciuta. Era la foto della “ragazza che corre”. In occasione del ventennale di quello scatto, la sua storia fu pubblicata sulla rivista “Erodoto108“, sul sito di “Osservatorio Balcani e Caucaso Trans-Europa” e su “Repubblica-online“. La traduzione del testo in bosniaco e la sua ripubblicazione a Sarajevo mi hanno permesso di ricevere un messaggio inaspettato:
Sono io la ragazza che corre, volevo dirle che sono sopravvissuta, mi chiamo Bojana D.
La foto della ragazza che corre
La foto protagonista di questa storia è molto meno nota, perché meno pubblicata. Le persone che corrono sono due, un uomo e una donna, e lo fanno tenendosi per mano. Corrono verso di me, sullo stesso marciapiede, dove Bojana li aveva appena preceduti.
In quel tratto la via allora si chiamava “Maresciallo Tito”. Dopo la guerra la grande strada dedicata al maresciallo esiste ancora, ma ha cambiato nome nel punto dove si stringe e si infila nel centro storico, all’altezza della “Vječna Vatra” (la fiamma eterna, che ricorda la liberazione della città dai nazisti) la strada oggi è dedicata a Mula Mustafa Bašeskija, uno scrittore di Sarajevo nato nel 1731 e morto il 18 agosto 1809 (*).
Duecento metri più avanti c’è il mercato all’aperto più popolare del centro storico di Sarajevo: “Markale”. Un luogo tristemente famoso per due stragi di civili, entrambe causate da granate di mortaio serbo-bosniache che segnarono una svolta nella guerra di Bosnia (5/2/1994: 68 morti e 144 feriti; 28/8/1995: 43 morti e 75 feriti). Dentro Markale, tra i palazzi, si era protetti dai colpi dei tiratori scelti, ma non dalle granate di mortaio che cadono dall’alto.
Markale è anche il mercato dove incontrai una donna che teneva aperto il suo banco di fiori, durante la guerra. Spesso i fiori erano di carta, perché quelli freschi erano difficili da trovare. “La Fioraia di Sarajevo” non volle dirmi a quale etnia appartenesse, né il suo nome, per evitare che lo capissi dalla sua risposta. “Sono nata a Sarajevo”, “Sono fioraia”, mi disse, e continuò a esserlo finché le fu possibile. Vendeva il superfluo accanto al necessario. C’era poco dell’uno e dell’altro, ma entrambi erano beni essenziali per resistere e sopravvivere. Erano “Il pane e le rose”. La foto della Fioraia era sconosciuta perché nessuno la volle pubblicare a suo tempo. Non era una storia attraente per photo-editor e capi-servizio. Vent’anni fa la pubblicai come ricordo personale sul sito di Osservatorio Balcani e Caucaso Trans-Europa. La lessero un’artista e un editore coraggiosi e mi convinsero a farne un albo illustrato. Grazie a loro, la fioraia e i suoi fiori sono entrati in tante scuole, primarie e secondarie, come esempio di un’identità moderna, molteplice e inclusiva, com’era quella bosniaca.
La fioraia di Sarajevo
Sempre sulla stessa via c’era un piccolo albergo abbandonato che si chiamava “Stari Grad” (città vecchia). In quei giorni, con Edoardo G. de “il manifesto”, dormivamo lì, ospiti del gruppo di volontari “Beati i Costruttori di Pace”. Con loro c’era anche Moreno Locatelli e diventammo amici. Tre giorni dopo quelle due foto scattate durante il bombardamento di granate, Moreno fu ucciso da una raffica di Kalashnikov sul ponte di Vrbanja. Era il 3 ottobre del 1993. A sparare, quella volta, non furono i serbo-bosniaci, ma questa è un’altra storia.
Scattai la foto di quei due ragazzi che correvano tenendosi per mano perché per me la forza era in quel dettaglio. Forse la velocità della corsa era compromessa e si rischiava di più, ma si rimaneva insieme. In occasione del trentennale dell’assedio di Sarajevo l’ho pubblicata su un social, insieme ad altre, e la foto ha ripreso vita.
Srdjan, che scrive dal Kosovo e a volte usa l’alfabeto cirillico per i suoi post, scrive : “Quello sulla sinistra è il poeta Hadžem Hajdarević! Grande foto!
Non so rispondergli, ma lo fa subito Tvrtko da Zagabria, una persona di grande cultura che conosco. E’ un letterato che, tra tante cose, ha curato la traduzione del carteggio tra Erri de Luca e Izet Sarajlic durante l’assedio di Sarajevo. Tvrtko conferma che si tratta proprio di lui, del poeta Hadžem Hajdarević, e aggiunge che la donna acanto a lui è Amra S., la sua compagna di allora.
Poco dopo, da Sarajevo, mi arriva la conferma del protagonista: Hadžem scrive una sola parola, usando due lingue: “Kvala! Grazie!
Tvrtko mi chiama, e mi racconta dettagli del momento che stavano vivendo quei due ragazzi, e del dramma affrontato nel dopoguerra. Qualcosa di dolorosamente personale che rimarrà tra noi.
Trent’anni dopo lo scatto, quella foto ci informa che a Sarajevo, il 30 settembre 1993, qualcuno sparava ai poeti. Ma c’è anche qualcosa di più, non meno importante. Attorno alla foto dei “poeti che corrono tenendosi per mano” tre amici hanno dialogato a distanza. Se osserviamo sulla carta i luoghi da dove è avvenuto il loro scambio di messaggi, in mezzo c’è quasi tutta la Jugoslavia, un paese che non esiste più. Da Pristina a Zagabria, passando per Sarajevo, sono circa 900 km. Per percorrerli oggi ci vuole il passaporto e bisogna attraversare quattro o cinque confini. Dieci anni di guerra (1991-2001), propaganda etno-nazionalista, costruzione dell’odio, dolore, rancori contrapposti e un accordo di pace che ha calpestato l’identità bosniaca, non sono riusciti a interrompere i rapporti fra tre amici, né l’amore per la letteratura e la loro terra.
Dopo quel dialogo a distanza Hadžem, poeta e scrittore pluripremiato, mandò una poesia a Tvrtko perché la traducesse in italiano. In letteratura i traduttori sono importanti, bisogna fidarsi di loro.
Avrei voluto incontrare Hadžem a Sarajevo, ma non ho fatto in tempo. Hadžem ci ha lasciato il 4 dicembre 2023. Aveva sessantasette anni.
Durante la commemorazione. La sindaca di Sarajevo Benjamina Karić ha detto: “Quando gli ho fatto gli auguri per il Bajram, lui ha risposto: “mi auguro che possiamo avere tutti un felice Bajram e tutte le feste di questo mondo.”
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(*) il 18 agosto 1809 è la data di morte di Mula Mustafa Bašeskija. Nella strada che oggi porta il suo nome ho scattato le foto della “Fioraia di Sarajevo”, della “Ragazza che corre” e dei “Poeti che corrono dandosi la mano”. Il 18 agosto è anche il giorno del mio compleanno (146 anni dopo).
Testo e fotografie di Mario Boccia
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In evidenza: La foto di Mario Boccia con i due ragazzi che si tengono per mano

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