Affabulazioni

Pilato

03.02.2024
I
Pilato si mosse verso la cima del promontorio. Vide salpare, silente, la trireme che lo aveva scortato fino a lì. La notte crollava e con essa comparve la fine neve siriana, mite turbinio. Vide la lunga barra scura della nave da guerra allontanarsi e sparire, oltre l’orizzonte. Poi, si unì al gruppo degli sbarcati che lo attendeva sulla via.
La coorte giunta ad accoglierli brandiva le torce. I cavalli scalpitavano mentre venivano caricati i bagagli. Sciacalli guaivano tra le rocce. Così, partì.
Fece fatica a controllare la bestia che gli era stata data, così nervosa e rapida, eppure, tentò, dalla notte, di estrarre il profilo delle alture. Promosso procuratore, decise di non assumere in pubblico il suo incarico. Preferiva incontrare prima il governatore: lo avrebbe visto, un mattino, entrare nell’aula da una porta laterale, mentre fischiava, trascinando i sandali, annoiato, così pareva, da molto tempo.
Attraversarono villaggi che sembravano dormienti da millenni.
Alla periferia di Cesarea, Pilato vide torce, lunghi volti indigeni, sguardi neri su di lui.
Pilato era un uomo della luce: resisteva a fatica alla morsa delle ombre che dilagano dopo il crepuscolo. Appena udiva gli ululati, si ritirava nella stanza, con la lampada e un libro. Una volta spenta la lampada, cadeva in un sonno alieno ai sogni. Quando vegliava, durante gli anni nell’esercito, non vedeva altro, nelle costellazioni, che i bivacchi delle falangi celesti, alleate.
Una volta giunto nella sua stanza a Cesarea, non riuscì a dormire, e prese a camminare. Odori sconosciuti. Ebbrezza di piante aromatiche intrideva le tende. A volte si fermava: crepe in quel silenzio. Il viavai di ignoti insetti. L’universo era nuovo. L’universo era più grande di quanto si credeva a Roma. L’Europa, misero angolo del globo, era una bizzarria ormai distante.
Non appena Pilato lasciò Roma, il passato volò via come un uccello che non lascia tracce nell’aria. Pilato considerava quella stanza una sorta di segnavia su un cammino che non faremo mai più a ritroso. Nonostante il cupo inverno, avrebbe ricordato per sempre il sole che aveva accompagnato la sua partenza verso Oriente. Mangiando il cocomero, all’ombra del pergolato, a Cesarea, prima del sopralluogo delle cinque, avrebbe ricordato l’irrisorio sole di Roma che, a quella stessa ora, aveva illuminato per l’ultima volta la baracca della sua giovinezza.
II
Passarono gli anni. Non erano più nuove, le cose l non divennero facili. Pilato dormiva poco in Oriente. Ora poteva vantarsi di conoscere le fasi lunari. Sapeva indovinare la grandezza della falce dalla nitidezza delle ombre rintracciate a terra.
Ogni giorno aveva le sue complicazioni. Le truppe di cui Pilato disponeva non gli permettevano di tagliare il nodo gordiano. Dovevi risolverlo – o fingere di riuscirci.
Le folle umane sono a mala pena prevedibili: l’Oriente vi aggiunge l’anima. L’anima è sfuggente. Devi affrontarla ad ogni istante. Pilato sapeva stare sulla breccia, conosceva l’arte della soglia.
Da dieci giorni la minaccia era a Gerusalemme. Come ogni anno, la Pasqua attirava i cuori di tutto quel mondo – e le teste calde.
Caifa, non fate lo stupido, non lo siete.
Caifa non disse nulla. Pilato guardò oltre la finestra: una scheggia di azzurro. Caifa, sommo sacerdote per intercessione di Roma, non lo riteneva del tutto legittimo, si mostrava presuntuoso. Un fuoco ardeva nei suoi occhi, dietro le palpebre spesse, appena abbassate. Pilato, stanco di quella visita, gli disse, per congedarlo: Io non intervengo nei vostri affari religiosi.
Davvero?
Non chiamo religione le vostre riunioni da strada.
La nostra religione appartiene al popolo.
Ma avete un tempio e le vostre sinagoghe.
Dobbiamo averle.
Che ciascuno passi per strada senza formare gruppi o riunioni. Le strade sono proprietà dello Stato.
Noi siamo una famiglia.
Pontificia.
Intendo, il nostro popolo.
Avete le case e i vostri campi.
Caifa non rispose. Pilato disse, Ho detto ciò che ho detto. Caifa fece finta di inchinarsi davanti a Pilato che ormai non lo guardava più e si ritirò dalla sala facendo frusciare i suoi vestiti.
Procla entrò, inavvertita. All’inizio non disse nulla. Fissò il quadrato azzurro della finestra. Tutto le pareva sospeso. E disse, a bassa voce: Il tuo è un ruolo da commedia.
Mi accusi di essere doppio?
Mi chiedo se la tua autorità non sia altro da te.
A quale io ti riferisci?
La tua anima selvaggia imbragata in un cuore romano.
Sono duro? Dimmelo.
Sei un eroe. Non uno di questi semi-dei che sognano i ragazzi, in questi giorni, ma un amministratore.
È il mio lavoro.
Dubito che il mondo sia stato creato per la pace romana.
Dobbiamo lasciare che gli uomini si sgozzino a vicenda?
I villaggi non sono abbastanza grandi? Perché Roma si è occupata delle nostre valli sannitiche?
Non vi regnava forse l’ingiustizia?
Forse dici il vero, ma ora…
Certo… ora potremmo… dovremmo…
III
Procla passeggiava davanti a cespugli impolverati. Si era levata prima dell’alba. I servi l’avevano sentita sbuffare in bagno. Dall’alba, i suoi sandali erano scivolati su sentieri deserti. Aveva lasciato la città mentre il cielo, bianco, elargiva la sua luce sul mondo.
Non le piaceva quel soggiorno in una Gerusalemme sovrappopolata, rumorosa, irrespirabile. Ogni giorno, all’alba, andava in campagna. Attraversava il Cedron e risaliva uno dei sentieri che, verso est, portavano agli ulivi. Una volta, sulla cresta, aveva visto il sole nascere. Ammirava i monti di Moab in controluce. Si rifugiava in quella nudità. Quando avvertì il rumore della città che si svegliava alle sue spalle e si levava dall’oscurità e che avrebbe dovuto sopportare per tutto il giorno, indugiò ancora, sfiorò l’erba con i piedi, chiuse gli occhi davanti alla luce che si specchiava sulle pietre, controfigura del sole. Aspettò che dai borghi di collina sciamassero turbe di bimbi. Rivolse a quel luogo uno sguardo amichevole, per poi voltarsi verso Gerusalemme.
Ogni mattina ammirava quella luce, così solida, di cui il Monte degli Ulivi pareva il santuario. Ma quella mattina c’era qualcosa di insolito. I bambini non correvano tra le rocce. La loro furia sembrava essere confinata nelle case.
Jean Grosjean, da “Pilate”, 1983
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Nell’immagine in evidenza: Mihály Munkácsy, “Cristo davanti a Pilato”, 1881

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