– Hai cambiato letto.
– Sì.
– Quando?
– Non mi ricordo. Saranno quindici anni.
– Questo ha il cassettone.
– Sì.
– E non m’hai detto niente?
– Scusa.
– È una questione di rispetto.
– Lo so, scusa.
– Mettiti nei miei panni, in quanto mostro sotto il letto, la struttura del letto ha un ruolo fondamentale per il corretto svolgimento del mio lavoro. Se tu me la cambi, ci va di mezzo
la qualità del servizio.
– Mi rendo conto.
– Non vorrei dovermi rivolgere al sindacato.
– Vedo cosa posso fare.
– Grazie.
– Aspetta… io ho un mostro sotto il letto?
– Avevi. Abbiamo lavorato insieme dal ’90 al ‘98. Ti risulta?
– Forse.
– Mi chiamavi Tommyknocker, te lo ricordi?
– Ah già.
– Cos’era?
– Un brutto film tratto da un brutto libro di Stephen King.
– Ti faceva così paura?
– Non l’ho mai visto. Mi faceva paura il nome.
– Il nome. E le dita. Te le ricordi le dita? Dita lunghe, dita di morto, dita con falangi magre che graffiavano e spiavano, e poi chissà, occhi vuoti, tre file di denti, tutto quello con cui la fantasia poteva torturare un bambino. Scivolavo nel buio come un insetto, come un annegato. E mentre mamma e papà litigavano nell’altra stanza, tu chiudevi gli occhi e fissavi il muro. Perché la regola era…
– Che se ti vedo, mi prendi.
– Che se mi vedi, ti prendo. Non ci siamo più sentiti. Com’è?
– Ho avuto un sacco da fare.
– Vuoi che ti faccia paura?
– A te farebbe piacere?
– Ma sì, in ricordo dei vecchi tempi.
– Va bene.
– Allora adesso allungo una mano e ti afferro un piede.
– Okay.
– Com’è?
– Ho molta paura.
– Non sembra.
– No, no, davvero, sono pietrificato.
– Non è vero.
– Invece sì.
– Smettila di essere condiscendente. Lo capisco quando fingi.
– Scusa, è che c’ho la testa da un’altra parte. Mi sono arrivati un sacco di lavori tutti insieme, un mucchio di scadenze, e poi…
– E poi?
– Lasciamo perdere.
– No, no, dimmi.
– Non è per sminuirti, è che adesso mi fanno paura cose diverse.
– Tipo?
– Beh, così su due piedi.
– Dai, magari mi aiuta, facciamo un corso di aggiornamento.
– I parcheggi a esse.
– Cioè?
– Mi fanno paura i parcheggi a esse. Non li so fare. Vado nel panico.
– Ma come faccio a farti parcheggiare qua nella tua stanza.
– C’hai ragione.
– Qualcos’altro?
– Le raccomandate.
– Le lettere?
– Sì, le buste delle raccomandate. Di solito è una multa, ma c’ho sempre paura che sia qualcosa di peggio. Una di quelle cose che ti rovina la vita.
– Mi potrei vestire da postino…
– Ma non è il postino in sé, è più…
– La busta, ho capito. Non posso passarti buste da sotto il letto, dai.
– No, no, chiaro.
– Mi sentirei uno scemo.
– I debiti.
– Eh?
– Mi fanno molta paura i debiti. L’idea di essere in debito. Mi mette ansia.
– Sì, va bene, ma pure questo è astratto.
– Poi, fammi pensare…
– Guarda, forse è il caso che la chiudiamo qui.
– Vediamo, ho paura di non essere quello che ho detto di essere. Capisci? Un bel giorno dover andare in giro e spiegare a tutti che mi sono sbagliato, che non è vero che so fare quello che ho detto di saper fare.
– Va bene, ho capito, facciamo che ci aggiorniamo…
– Ho paura che sia troppo tardi.
– Per cosa?
– Per tutto. E che ogni giorno sia troppo tardi per una cosa nuova.
– Così no, però, così non va bene…
– Vorresti che avessi paura di qualcosa di più concreto, vero? I mostri magari. I fantasmi, gli alieni?
– Esatto! Esattamente! È proprio quello che cercavo di dirti.
– Ma magari.
– Come magari?
– Magari ci fossero i mostri, magari ci fossero gli alieni, magari ci fosse qualcosa che si muove nel buio. Io ci spero che le cose che mi facevano paura da bambino siano vere. Io
ci spero che nel buio ci sia qualcosa, perché significherebbe che non sono solo in quel buio. Che non è tutto qua.
– Basta, ti prego.
– E poi ho paura di me.
– Davvero non…
– Delle mie ipocrisie, delle mie nevrosi, della mia malignità, di una sveglia sul cellulare con scritto sopra “pagare tasse”. E più di tutto…
– No…
– Ho paura perché credo di aver finalmente capito perché ho paura.
– Smettila…
– Ho paura perché credo di essere come uno di quei quadri impressionisti. Quelli che da lontano sembrano belli e sensati e più ti avvicini più ti accorgi che non c’è niente, sono
solo macchie di colore. Ed è quello che penso di me.
– Cristo santo. Davvero?
– Sì.
– Io… cavolo, è… è…
– È?
– Terrificante.
– Lo so.
– Oh no.
– Cosa?
– Sei diventato il mio mostro sopra il letto.