Credo in Dio.
Credo nei biscotti che rubiamo dal refettorio.
Credo nel nascondiglio che c’è nell’orto, dove non ci trovano all’ora del rosario.
Credo nell’esistenza di un padre che non è il mio, perché usa la sottana e ci porta nel confessionale per farci sedere sulle sue ginocchia (non sopporto il suo odore) e accarezzarci.
Credo nelle novizie arrabbiate quando nascondiamo i loro messali.
Credo nell’alito fetido della madre superiora quando vocifera (ma quello di mia madre è superiore).
Credo negli scherzi che facciamo al giardiniere per farlo diventar matto.
Credo nelle mie ginocchia piene di sangue dopo essere stata denunciata da una traditrice quando misi del peperoncino nella limonata.
Credo che la vergine (forse è molto occupata) non mi guardi.
Credo nel flagello con cui si frusta la monaca Stéfana, con il quale mi frusta quando mi scopre dietro il guardaroba, e per questo non l’ho mai voluta chiamare Stéphanie. Credo nelle uniformi, a volte blu, a volte bianche, nelle inferriate delle piccole finestre di sporchi cristalli, così alte che non riesco a vedere se c’è qualcosa al di là in cui credere.
Credo nell’odore della clausura e del decotto.
Credo nella pesante porta che mai si apre; solo un’imposta fa apparire un volto sconosciuto, e nella notte mi perseguita un viso dentro una cornice.
Credo nella porta chiusa.