Affabulazioni

Cenerentole e sorellastre

20.03.2024
“La strada per arrivare a un compromesso quantomeno accettabile con il mio aspetto è ancora lunga – ci vorranno anni perché capisca cosa sognare, come sognarmi, come evitare che qualcuno mi dica che devo valorizzarmi, o ignorare chi me lo dirà. L’adolescenza finisce, per fortuna, come tutte le cose brutte. Dopo il dramma dei 12-13 anni, a onor del vero, le cose migliorano – rimangono gli abissali sbalzi d’umore, l’assolutezza intransigente di felicità e dolori, i picchi spietati, innamoramenti e drammi, e tutto quel che ne consegue. Non ho piú l’apparecchio, sono un po’ meno gobba, la pelle si è ripulita, sono goffa, una schiappa negli sport, ma il mio giovane metabolismo suggerisce comunque un fisico atletico; sorrido nelle fotografie con una dentatura candida e inscalfibile, non mi fanno piú battute cretine sulla mia bocca. Non infierisco piú contro i miei capelli, anche se per qualche ragione non mi decido a realizzare il sogno della superchioma che coltivavo da bambina. Ho un gusto certo discutibile, ma mio, nel vestire.
A diciannove anni ho imparato a incassare i complimenti, sto scoprendo il piacere di piacere ai ragazzi, cosa che finalmente mi pare ovvia, semplice – di nuovo, il pensiero botanico di quando avevo dieci anni si riaffaccia. Proprio allora passo il concorso alla Normale, un’istituzione prestigiosa, selettiva, competitiva, con qualche dinamica da caserma fra studenti.
Quando finalmente il mio aspetto non era più un problema, bruscamente torna a esserlo. Sono una matricola presa di mira dai ragazzi più grandi: mi lasciano bigliettini e fiori sotto la porta della mia stanza in collegio, mi invitano ad appuntamenti che declino, e allora si vendicano. Mi si appiccica la fama di essere carina e scema – proprio io, la ex secchiona – in un posto in cui essere carini è un marchio d’infamia, perché essere scemi è inammissibile.
Come molte normaliste, anch’io mi sento dire da blasonati professori, all’università, che sono troppo bella per essere una normalista. Sono, effettivamente, abbastanza cretina da crederci. Ai processi alle matricole, usanza casermesca, sfogo di nonnismo, eredità di antichi rituali fra giovani maschi dei tempi in cui ragazzi e ragazze vivevano separati, subisco una serie di angherie che mi umiliano forse piú di quanto non mi appaia sul momento. Salgo le scale in ginocchio, mentre uno degli studenti piú grandi, uno di quelli che mi aveva dedicato attenzioni al mio arrivo, mi tiene per i capelli. Mi infila in bocca una carota.
Non so cosa fare, cosa dire, non dico niente, non faccio niente. A parte boicottare i processi alle matricole l’anno successivo, insieme ai miei compagni, quando sarebbe stato nostro il ruolo degli aguzzini.
Le voci mi si appiccicano addosso. Non voglio essere considerata una scema, è una cosa che mi fa arrabbiare; e così, a poco a poco, cambio – di nuovo incrudelisco contro il mio aspetto. Una scelta stupida, ma forse mi è parsa la piú semplice.
A vent’anni mi riempio di complessi; di nuovo, come da adolescente, ma per altre ragioni, voglio scomparire. E inizio a fare la cosa che in molte facciamo quando vogliamo scomparire: non mangio, dimagrisco, mi attacco al potere che ho di rimpicciolire il mio corpo. Non mi sento mai abbastanza magra; e sí, voglio scomparire, ma anche essere impeccabile. Voglio che di me non si possa dire niente di male; per qualche via segreta, penso che essere bella, o meglio, essere priva di difetti vistosi, sia importante, che sia come il segno di essere predestinata a una forma di salvezza. A tal punto, evidentemente, è radicato in me l’archetipo di Cenerentola, prescelta e salvata solo perché attraente secondo i canoni; nonostante gli scatti di orgoglio, nonostante le sporadiche intuizioni dell’adolescenza, quelle che mi erano state consentite unicamente dalla mia prospettiva di sorellastra. Mi vesto di scuro, dimagrisco ancora. Non degenera in un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare, grazie all’amore che mi sostiene, della mia famiglia, dei miei amici, del mio fidanzato di allora. Non ero destinata, evidentemente, per mia fortuna, all’anoressia; ma qualche stortura nel rapporto con me stessa, lí ha preso una forma inquietante.
A dieci anni dalla laurea, riguardando le fotografie, mi sono vista e ho avuto un po’ di pietà per me, per la mia debolezza che non sapevo ammettere. Forse, per certe persone, guardarsi è possibile solo in prospettiva?
Non è propriamente una storia a lieto fine, questa; certo non è una fiaba, e inoltre non so ancora come finirà. Come mi ha detto la mia amica, è una battaglia che dura.
Mi è capitato, anni fa, alla fine di una lunga storia d’amore, di cedere, e dar la colpa al mio aspetto. Se fossi stata più bella, mi dicevo, non avrebbe potuto lasciarmi. Sapevo, razionalmente, che era un ragionamento stupido, che non stava in piedi. Che lo formulava la mia parte vergognosa, patriarcale, impresentabile, la mia parte-Cenerentola, ma non riuscivo a impedirmelo fino in fondo. Poi ho smesso di pensarci; mi sono educata a smetterla, anche se mi capita ancora di disperarmi per una brutta fotografia, o perché qualcuno mi ha fatto notare che sono ingrassata, anche se conosco – la mia vita conosce – problemi ben piú gravi.”
Ilaria Gaspari, da “Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza”, 2022
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Foto di Nerina Toci

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