Se avessi l’ingegno del Cervantes, io farei un libro per purgare, come egli la Spagna dall’imitazione de’ cavalieri erranti, cosí io l’Italia, anzi il mondo incivilito, da un vizio che, avendo rispetto alla mansuetudine de’ costumi presenti, e forse anche in ogni altro modo, non è meno crudele né meno barbaro di qualunque avanzo della ferocia de’ tempi medii castigato dal Cervantes.
Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa piú difficile è il trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamitá pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana.
E non è scherzo ma veritá il dire, che per lui le conoscenze sono sospette, e le amicizie pericolose; e che non v’è ora né luogo dove qualunque innocente non abbia a temere di essere assaltato, e sottoposto quivi medesimo, o strascinato altrove, al supplizio di udire prose senza fine o versi a migliaia, non piú sotto scusa di volersene intendere il suo giudizio, scusa che giá lungamente fu costume di assegnare per motivo di tali recitazioni; ma solo ed espressamente per dar piacere all’autore udendo, oltre alle lodi necessarie alla fine.
Giacomo Leopardi, da “Pensieri”, XX, in “Zibaldone di pensieri”, 1845
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Nell’immagine: Renato Guttuso, “Autoritratto”, 1936