Emma faceva l’operaia. Lavorava in fabbrica, in mezzo agli altri, ma era come se fosse sola. Non le nascevano amicizie intorno.
Lo stabilimento era molto grande: comprendeva molti edifici bassi e lunghi capannoni. Occupava diverse strade, come un quartiere della città.
Questo non aiutava a conoscere la gente: si entrava per diverse portinerie, lontane, ed era come se ogni gruppo si perdesse in uno stabilimento diverso.
Emma ogni mattina si trovava davanti alla sua macchina, in fila con le altre operaie. Stavano strette, ma il rumore dell’officina impediva di parlare: a meno che si strillasse… Metteva un pezzo nella macchina, azionava una leva, l’operazione si concludeva in pochi secondi.
Poi un altro pezzo.
Così passava la sua giornata. Intorno a lei
l’officina rimbombava col suo rumore: un tum tum che pareva un passo cadenzato.
Nei primi tempi a Emma piaceva quel rumore; poi ne era rimasta intontita.
Alla fine vi aveva fatto l’abitudine. Aveva assorbito il rumore come una spugna ed era diventata un po’ sorda: di orecchie, di corpo e di anima.
Ottiero Ottieri, da “Tempi stretti”, 1957
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In evidenza: Foto di Howard R. Hollem